Jeff Greenfield per Politico.com
Abbiamo mai avuto un Presidente, prima di questo, che ha disprezzato così tanto i consigli e le politiche di coloro che hanno trascorso intere vite a lavorare per il Governo?
Abbiamo mai avuto un Presidente così scettico sui giudizi dei diplomatici di carriera, dei leader militari e dei Servizi Segreti, da fidarsi più della sua famiglia che dei cosiddetti “esperti”?
Si, lo abbiamo avuto. Si chiamava John Fitzgerald Kennedy.
Kennedy e Donald Trump non sono né uomini né Presidenti simili. Quattordici anni di JFK alla Camera e al Senato, la sua conoscenza della storia e la sua prudenza sulle questioni pubbliche (piuttosto che su quelle private) rendono assurda questa nozione.
Tuttavia, in un certo senso lo sono: durante la sua presidenza, Kennedy aveva sempre più diffidato della saggezza del “governo permanente”, del “deep state”, del “complesso militar-industriale” o di qualsiasi altro termine possa oggi sembrare più appropriato.
Il suo scetticismo potrebbe aver salvato il pianeta dall’annientamento nucleare.
Durante i tumulti degli anni di Trump, Generali come H.R. McMaster e Jim Mattis sono stati glorificati per la loro saggezza — Trump, però, ha sempre ignorato le loro opinioni.
Trump meriterebbe di essere censurato, forse, per il suo rifiuto ad ascoltare il consiglio delle “mani esperte”, per aver gettato via decenni di esperienza scientifica, economica e militare.
Ma, nella fretta di criticare Trump, rischiamo di dimenticare la lezione degli anni di Kennedy: esiste il pericolo concreto di far troppo affidamento sulla “saggezza” degli “esperti”.
Un Presidente in grado di resistere alle certezze degli “esperti” — e con un forte senso della storia — può rappresentare una protezione cruciale contro possibili disastri.
A differenza di Kennedy, Trump possiede solo uno di questi tratti. Ma non dovremmo permettere che eventuali “cadute” del Presidente resettino le nostre aspettative sul controllo civile degli affari militari ed esteri.
JFK fece una campagna, nel 1960, da freddo e convenzionale guerriero, avvertendo che gli Stati Uniti erano rimasti indietro rispetto all’Unione Sovietica.
Sosteneva che un (inesistente) “gap missilistico” stava minacciando la nostra sicurezza — e abbracciò l’idea che la caduta di qualsiasi Paese nelle braccia del comunismo avrebbe minacciato le nazioni circostanti (la “teoria del domino”).
Tuttavia, era entrato in carica con la ferma convinzione che il potere del nazionalismo stesse cambiando la dinamica della politica mondiale. In effetti, fu molto scettico sulla capacità della Francia di tenere l’Indocina, nei primi anni ‘50.
Di conseguenza, nei suoi primi giorni da Presidente respinse la richiesta dei suoi “consiglieri militari” di collocare truppe americane nel Laos, equipaggiate con armi nucleari tattiche.
Il suo scetticismo nei confronti dei militari crebbe costantemente. Dopo il fiasco della “Baia dei Porci” del ‘61, egli disse: “Quei figli di puttana se ne stavano seduti lì, davanti ad un’insalata di frutta, dicendo che tutto avrebbe funzionato per il meglio”.
S’infuriò anche quando l’Esercito impiegò delle ore per schierarsi contro la rivolta dell’Università del Mississippi, per l’ammissione del primo studente nero.
Inoltre, nel momento più vicino di sempre alla guerra nucleare (la crisi dei missili cubani del 1962), Kennedy rifiutò ripetutamente di colpire le installazioni di missili sovietici sull’isola.
Il suo giudizio potrebbe aver fatto la differenza fra la guerra e la pace. Ma i pesi massimi dell’Esercito e dei Servizi Segreti la videro diversamente.
“La più grande sconfitta della nostra storia”, la definì il Capo dell’Aeronautica, Curtis LeMay.
L’ex “Segretario di Stato” Dean Acheson — l’ultimo “saggio” ad aver assicurato JFK che i sovietici non avrebbero risposto ad un colpo militare a Cuba — definì “fortunosa” la soluzione pacifica della crisi ed in seguito ebbe a dire che: “Dobbiamo affrontare il fatto che gli Stati Uniti non hanno un leader”.
Anche Allen Dulles (Capo di lunga data della CIA), rimosso da JFK dopo la “Baia dei Porci”, andando in pensione dichiarò che: “Kennedy è un debole, non è un leader”.
Kennedy, a sua volta, era preoccupato dei suoi “consiglieri militari” al punto da incoraggiare il Regista John Frankenheimer a realizzare un film, “Seven Days in May”, basato su un tentativo di “colpo di stato” militare.
Lasciò persino la Casa Bianca, un fine settimana, per assistere alla sua pre-proiezione.
Nel giugno del 1963 Kennedy aveva segnalato la sua intenzione di farla finita con la “Guerra Fredda”. In un discorso all’”American University” chiese un nuovo approccio nei confronti dell’Unione Sovietica.
Pur condannando il suo sistema totalitario, egli dichiarò:
“Non siamo ciechi rispetto alle nostre differenze, ma dobbiamo rivolgere l’attenzione anche ai nostri interessi comuni e ai mezzi con cui tali differenze possono essere risolte.
E, se non possiamo porre fine alle nostre differenze, possiamo almeno contribuire a rendere il mondo più sicuro. Perché, in ultima analisi, il più basilare legame che abbiamo in comune è che tutti abitiamo questo piccolo pianeta. Respiriamo tutti la stessa aria. Tutti amiamo il futuro dei nostri figli. E siamo tutti mortali”.
Kennedy cercò di ridurre le critiche dei militari attraverso enormi aumenti al bilancio della difesa. Ed ebbe anche una sostanziale responsabilità nell’invio di 15.000 “consiglieri militari” in Vietnam.
Ma la storia suggerisce anche che stava cercando una via d’uscita da quel pantano, mentre si occupava delle dure realtà politiche interne.
Egli disse a un amico: “Non abbiamo alcuna necessità di restare nel Vietnam. Quelle persone ci odiano e finiranno con lo sbatterci fuori ….. Ma non posso cedere un pezzo di territorio ai comunisti e poi convincere la gente a rieleggermi”.
Kennedy respinse il “governo permanente” facendo affidamento su occhi e orecchie diverse sia per i consigli che per le informazioni. Fu suo fratello, Robert Kennedy, il consulente-chiave su qualsiasi questione, al di là del suo lavoro di Procuratore Generale.
Durante la crisi dei missili cubani, JFK usò il corrispondente della ABC, John Scali, come intermediario verso Alexandr S. Fomin, Ufficiale del KGB a Washington e amico personale del Premier Sovietico Nikita Krusciov.
Quando Kennedy venne a sapere che il giornalista francese Jean Daniel avrebbe intervistato Fidel Castro, volle incontrarlo e gli chiese di incontrarlo di nuovo al suo ritorno.
Inoltre, incoraggiò il vice-Ambasciatore alle Nazioni Unite (ed ex giornalista), William Atwood, a mantenere i contatti con la delegazione cubana.
Nessuno può sapere, ovviamente, se JFK, nel suo secondo mandato, avrebbe portato avanti le sue idee contrarie alla Guerra Fredda.
Quello che sappiamo è che durante tutta la sua presidenza fu una delle poche voci a respingere le ipotesi degli “esperti” che lo circondavano.
Praticamente, ogni “uomo saggio” — McGeorge Bundy, Walt Rostow, Dean Rusk etc — sosteneva l’escalation in Vietnam. Ma Kennedy la respinse.
Diceva, ad esempio, che se fossero riusciti a convincere Douglas MacArthur che una guerra di terra in Asia era una buona idea, di farglielo sapere.
Dopo la sua morte il successore — molto meno radicato sia in storia che in politica estera e senza i profondi dubbi di Kennedy sulla saggezza dei militari — presiedette a quella grande tragedia che fu il Vietnam.
E’ sbagliato, quindi, chiedersi se sia lecito che il Presidente Trump conduca una politica estera personalistica. In effetti, è ugualmente sbagliato pensare che i Presidenti debbano rimandare ogni questione ai loro consiglieri militari e diplomatici.
Fu “il migliore e il più brillante” a condurci nel Vietnam; fu il consiglio di leader esperti che ci portò in Iraq nel 2003; fu una squadra di esperti a presiedere la discesa nella Grande Recessione del 2008.
Sotto Trump, abbiamo visto un Presidente senza i doni della “conoscenza e del giudizio” ignorare i consigli degli “esperti”.
Ma, se il rispetto diventa venerazione, la storia insegna che si potrebbe arrivare ad una nuova serie di politiche distruttive.
Un Presidente senza la capacità di contestare la “saggezza convenzionale”, senza la capacità di discutere nuove alternative a vecchi problemi, non fa alcun favore né all’ufficio né al suo Paese.
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Link Originale: https://www.politico.com/magazine/story/2019/10/30/when-jfk-was-trump-229888
Scelto e tradotto da Franco
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