Redazione: Proponiamo un saggio tratto dal recente passato (2014), in cui il Prof. Gattei ci spiega in due righe le analogie fra “Moneta del Grande Spazio” di hitleriana memoria e l’euro.
Quello che serve perché tutti possano capire. Intendiamo in questo modo festeggiare il nostro 25 aprile, perché ciò che abbiamo cacciato dalla porta ci sembra sia rientrato dalla finestra.
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Prof. Giorgio Gattei *
Sembra che la Grande Germania, ritornata soggetto geopolitico egemone in Europa, stia realizzando la prospettiva immaginata dai politici e dagli economisti nazisti per il loro “vittorioso” dopoguerra: rendersi esportatrice netta di merci verso una periferia monetariamente subalterna ad una moneta unica, che allora sarebbe stato il marco e oggi è l’euro.
Alla metà degli anni ’30 la stabilità degli scambi commerciali con l’estero era stata raggiunta, in Germania, mediante accordi bilaterali di clearing che consentivano di scambiare le merci senza “consumare” moneta perché le importazioni, non coperte da esportazioni, venivano contabilizzate in una “stanza di compensazione” e rinviate al futuro, senza interessi, in attesa d’essere saldate con le esportazioni a venire.
A seguito dei successi militari del 1940 una sua evoluzione venne ritrovata nella compensazione multilaterale tra nazioni progressivamente alleate o conquistate.
Così, se la Germania si trovava con un debito verso A ma pure con un credito verso B, B pagava A e la Germania era libera dal debito senza nessun movimento di valuta.
Nasceva in questo modo l’idea di costituire un Grande Spazio di scambi commerciali europei di cui la Germania sarebbe stata il “centro” come spiegava, nel 1940, una nota della Cancelleria del Reich:
«I grandi successi della Wehrmacht tedesca hanno creato i fondamenti per il Nuovo Ordine Economico Europeo sotto il dominio tedesco.
La Germania, dopo aver concentrato negli ultimi anni le proprie forze principalmente sul riarmo militare, potrà seguire in futuro anche la strada della crescita economica e dello sviluppo delle proprie forze produttive su ampia base e una grossa crescita del tenore di vita ne sarà la conseguenza» [1].
Questo Nuovo Ordine Economico Europeo sarebbe però nato asimmetrico perché gli stati aderenti si sarebbero collocati in due diversi gironi d’importanza:
un «cerchio interno» composto dalla Germania allora impinguata dell’Austria e dei Sudeti, dal Protettorato di Boemia e Moravia, dal Governatorato Generale polacco e da Danimarca, Norvegia, Olanda, Belgio e Lussemburgo in quanto nazioni razzialmente affini ma pure economicamente omogenee, tanto da potersi pensare ad un unico livello dei prezzi, dei redditi e dei salari; e
un «cerchio esterno» in cui avrebbero gravitato Svezia, Svizzera e poi Portogallo, Italia, Grecia e Spagna (i PIGS, i paesi “maiali” già allora previsti!) con estensione all’Unione Sovietica (quando sconfitta), alla Turchia e all’Iran per proiettare il Grande Spazio fino al Pacifico e al Golfo Persico. Qui però prezzi e salari sarebbero stati mantenuti più bassi per favorire le esportazioni verso il cerchio interno.
Il marco sarebbe dovuto diventare la moneta comune (in mancanza, «la fissazione di tassi di cambio stabili sarebbe stata assolutamente necessaria»), mentre sarebbe stata istituita una Banca Centrale Europea con sede a Vienna, che allora era tedesca, per il conteggio incrociato dei saldi tra i paesi associati «in cui, naturalmente, la Germania deve essere predominante».
Tale progetto d’unificazione commerciale e monetaria europea non ha però mai visto la luce, travolto dal rovesciamento delle sorti della guerra dal 1942 in poi.
Ma si può avanzare il legittimo sospetto che, dopo la costituzione dell’Unione Monetaria, la Germania post-1989 abbia ripreso con determinazione l’idea del “Grande Spazio Europeo”, partendo dall’adozione di una politica commerciale lucidamente “mercantilistica” per compensare con l’esportazione all’estero il rigore fiscale e la moderazione salariale interne (qualcuno ha scritto che «se non ci fossero state le robuste esportazioni verso l’Europa periferica, la Germania sarebbe scivolata dalla bassa crescita alla stagnazione» [2]).
Ma il disavanzo commerciale che si veniva a formare in periferia, non più correggibile con le svalutazioni (per il vincolo della moneta unica), come sarebbe stato coperto?
A sostenere la capacità di spesa dei paesi “maiali” sono intervenuti i prestiti di capitale dal “centro” per cui, se quelli s’indebitavano, questo otteneva il doppio vantaggio di guadagnare interessi sul denaro prestato assicurandosi contemporaneamente un mercato di sbocco privilegiato perché privo di rischio di cambio.
Il gioco non è tuttavia senza difetto perché, mentre la periferia si deindustrializza per l’invasione delle merci straniere, il centro si fa partecipe della sua progressiva instabilità finanziaria per quell’indebitamento crescente di cui è creditore.
E così, quando ai primi casi d’insolvibilità periferica (Grecia, Cipro) il “centro” ha temuto che i propri crediti potessero venir “ripudiati”, è corso ai ripari chiedendone il rientro coatto.
Sta in questo il senso del “Trattato per la Stabilità, il Coordinamento e la Governance”, sinteticamente noto come “Fiscal Compact”, approvato il 23 luglio 2012 dal Parlamento Italiano.
Con esso si sono a tal punto irrigiditi i vincoli di bilancio pubblico e di debito sovrano da poter essere giudicato, dopo il Trattato di Maastricht (1991) ed il Trattato di Lisbona (1999), come «il terzo atto della storia dell’euro che radicalizza in maniera inedita i principi neoliberisti che hanno caratterizzato fin dall’inizio la costruzione della moneta unica» [3], anche a rischio di realizzare una forma di austerità perpetua che potrebbe far esplodere l’Unione Monetaria Europea.
Il Fiscal Compact richiede all’articolo 3 che le spese statali vengano integralmente coperte da imposte e tasse (al netto di variazioni minimali emergenziali).
In caso contrario è previsto «un meccanismo automatico di correzione» che di fatto priva i paesi colpevoli d’infrazione d’ogni potere decisionale proprio.
L’articolo 4 impone invece il rientro del debito pubblico al 60% del PIL a partire dal 2015 (un impegno confermato dalla “Agenda Monti” del 24 dicembre 2013).
Questo significherebbe, per l’Italia (con un debito pubblico del 134% su di un PIL di oltre 2000 miliardi di euro), un aggravio sul bilancio statale, e per vent’anni, di una quota di restituzione del debito di oltre 50 miliardi all’anno.
Ma perché un simile provvedimento è stato introdotto?
Chi l’ha pensato si è affidato a certe stime del Fondo Monetario Internazionale secondo le quali ad un punto di “contrazione fiscale” (più imposte e tasse e/o meno spesa pubblica) corrisponderebbe un calo del Pil dello 0,5%, e quindi una riduzione del rapporto Debito/Pil.
Però, all’inizio del 2013, lo stesso FMI ha convenuto che quella stima funziona soltanto in caso di crescita economica, perché in recessione la riduzione del Pil sale all’1,7%, aumentando (e non diminuendo) il rapporto Debito/Pil e quindi costringendo ad ulteriori interventi d’austerità che peggiorano il rapporto e così via [4], come s’è visto in Italia con le manovre di riduzione del debito dei governi Monti e Letta che, invece di diminuirlo, lo hanno aumentato.
Ma se tutto questo succede in periferia, che capita al “centro”?
Di fronte ad un eventuale collasso economico periferico, il “centro” vedrebbe restringersi l’area privilegiata d’esportazione dovendo cercare altri sbocchi fuori dalla zona-euro dove, però, il rischio di cambio esiste.
E qui, a fronte di un euro troppo rivalutato, la sostituzione delle esportazioni potrebbe non risultare “a somma zero”, come sta già succedendo alla Germania: calano le esportazioni verso i paesi UE, ma:
«Berlino sbaglierebbe davvero molto se d’ora in poi pensasse di poter puntare tutte le sue carte solo sul resto del mondo.
Con una domanda interna tendenzialmente debole e senza la vecchia Europa che torni a comprare il “made in Germany”, il suo attivo rischia di non correre più come quello di un tempo sicché, nel 2012, la somma del saldo complessivo UE ed extra-UE ha fatto segnare soltanto quota 185 miliardi, un livello ancora lontano, dopo cinque anni, dal record storico di 194 miliardi toccato nel 2007» [5].
Allora, quale soluzione ci sarebbe per il “centro” se non quella di una svalutazione competitiva dell’euro per guadagnare maggiori quote di mercato?
Ma questa decisione, favorevole agli industriali, danneggerebbe il sistema finanziario che vedrebbe minacciato quell’euro forte, difeso fino ad ora a spada tratta.
Ecco perché non è da escludere l’alternativa dell’arroccamento su un “euro del nord” che abbandoni al proprio destino i paesi “maiali” per riciclare il “centro” come luogo privilegiato d’importazione di capitali invece che di esportazione di merci.
E’ quest’ultima una soluzione praticabile? L’antagonismo tra finanza e industria è un tema ricorrente nella storia economica.
*Professore nell’Università di Bologna.
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[1] Cfr. P. Fonzi, La moneta nel Grande Spazio. La pianificazione nazionalsocialista della integrazione europea 1939-1945, Milano, 2012.
[2] S. Cesaratto e A. Stirati, Germany and the European and Global Crisis, in “Quaderni del Dipartimento di Economia politica dell’Università di Siena”, 2011, n. 607, p. 3.
[3] B. Coriat, T. Coutrot, D. Lang e H. Sterdyniak, Cosa salverà l’Europa. Critiche e proposte per un’economia diversa, minimum fax, Roma, 2013, p. 8.
[4] Cfr. O. Blanchard e D. Leigh, Growth forecast errors and fiscal multipliers, in “IMF Working Paper”, 2013, n. 1.
[5] M. Fortis, Il made in Germany sta peggio, “Il Sole-24ore”, 17 maggio 2013.
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Link Originale: http://www.economiaepolitica.it/primo-piano/leuro-dei-nazi-e-il-nostro/
Scelto e pubblicato da Franco
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