di Carloalberto Rossi e Giorgio Saibene
Ripartenza insieme, a rate, prima su, prima giù, a quadretti, a righe
Il dibattito sulla ripartenza dopo il lockdown infuria sui media e tra le forze politiche e, pare, anche tra le tante commissioni istituite dal governo, ma tra tanti commenti incompleti non si riesce a sentire niente di intelligente, e al contemporaneamente completo e realizzabile. Solo una cacofonia di posizioni di governatori più preoccupati di uno scampolo di visibilità che delle reali conseguenze del virus.
Attualmente il dibattito pare polarizzato nella sterile politica regionalistico-secessionista tra Lombardo Veneto e nostalgici borbonici vittimisti, in cui la Lombardia dice che vorrebbe aprire le aziende al più presto e risponde la Campania (che di fabbriche ufficiali da aprire ne ha molte meno) minacciando di chiudere le frontiere e bloccare i treni in arrivo dal nord, o la Puglia che giusto per distendere il clima della discussione invita la Campania a non regolare adesso i conti con “l’arroganza settentrionale”, che non sembra il modo migliore per attrarre turisti paganti sulle spiagge del Salento. Poi entrano in scena i virologi, gli epidemiologici e gli attuari che, elaborando dati per loro ammissione incompleti e inaffidabili, elaborano curve che cadono come astragali sul calendario per determinare le date presunte del mitico contagio zero per ogni regione.
La via dell’apertura differenziata per regioni sembra prevalere a discapito dell’apertura unica nazionale, e sarebbe una scelta assodata sulla base delle rilevazioni epidemiologiche lo sblocco prioritario delle regioni del sud e, solo dopo, quelle del nord, ma pare che al sud nessuno voglia ripartire, mentre al nord tutti scalpitano. Qualcuno propone di differenziare per zone, altri per distretti, altri ripropongono la ormai tristemente famosa classificazione delle aziende sulla base del codice ATECO, nonostante questa abbia già dimostrato la sua inadeguatezza a descrivere una reale distinzione tra i diversi tipi di attività delle aziende. All’interno delle discussioni regionali, qualcuno ragionevolmente propone di allungare gli orari di lavoro e di apertura dei negozi per decongestionare i trasporti pubblici, altri ragionano sulle modalità igieniche sul luogo di lavoro o sui mezzi di trasporto, proponendo improbabili e costosi schieramenti di termo-scanner presumibilmente inadeguati a individuare gli asintomatici, mentre le discussioni sui centimetri necessari per rendere efficace il distanziamento sociale stanno lievitando dal metro iniziale ai quasi due metri attuali, e nessuno riesce a capacitarsi di come applicare questa misura ai vari tipi di trasporto pubblico senza un vertiginoso aumento dei costi e una drammatica riduzione delle capacità di trasporto. Pare che la task-force del super manager Colao abbia almeno partorito il suggerimento di sfruttare di più la bicicletta, in particolare quella elettrica, e i principali municipi del nord si interrogano su come aumentare la scarsa dotazione di piste ciclabili dei nostri capoluoghi.
In realtà l’unica soluzione che soddisfi criteri economici, sociali e legali limitando i danni sul fronte sanitario appare essere quella della apertura totale all’interno di un territorio almeno per tutte le attività produttive e manifatturiere e i servizi che a queste necessitano, oltre ovviamente a tutte le altre attività cosiddette essenziali (che non sono mai state chiuse), trattando in modo diverso (cioè tenendo chiuse le attività) solo le attività palesemente superflue come sport, divertimento e cultura, ma solo quando comportino assembramenti, e chiedendo alle imprese di mettere responsabilmente in atto tutte le forme organizzative per ridurre il personale necessario in azienda, oltre a tutti gli accorgimenti per evitare il contagio sul luogo di lavoro.
La riapertura della vita economica e sociale è una urgenza molto poco differibile a causa delle gravissime conseguenze economiche e sociali che il lockdown, pur in parte giustificato dai logici timori sanitari, sta già provocando sulla sicurezza dei cittadini e della società nel suo insieme, limitandola sia dal punto di vista giuridico costituzionale che economico, e mettendo in forse il futuro e le certezze di moltissimi.
Proprio sulla sicurezza dei cittadini, nell’incertezza della tenuta del quadro economico, vale la pena di fare una riflessione e di prenderla come uno dei criteri base per le scelte sulla cosiddetta ripartenza.
Infatti in Italia, su 60,5 milioni di abitanti ci sono poco più di 19 milioni di persone che percepiscono un reddito veramente sicuro, che sono i pensionati ed i dipendenti pubblici, mentre altri 13,6 milioni di persone hanno un reddito molto meno sicuro come dipendente del settore privato (di cui 7,5 milioni sono assunti in aziende con meno di 10 addetti), altri 5,6 milioni hanno rapporti contrattuali indipendenti con il settore privato e quindi il loro reddito è ancora meno sicuro, chiudono il conto della popolazione italiana un gruppo di 22 milioni di persone (minori, casalinghe, anziani senza pensione, inattivi e disoccupati) che un reddito proprio non ce l’hanno. Se liberiamo il campo dalle partite di giro, abbiamo il 32% della popolazione che percepisce un reddito non troppo sicuro (a causa del sempre più possibile fallimento dell’azienda) che deve pure provvedere alla fiscalità necessaria a pagare la sopravvivenza del restante 68%, quasi la metà dei quali ha sicurezze granitiche.
Pur avendo teoricamente bloccato in casa con il lockdown buona parte di questi 19 milioni di virtuosi addetti del settore privato, oltre a 16 milioni di pensionati e tutti gli altri 22 milioni senza reddito, diciamo mal contati 47 milioni di persone, cioè quasi l’80% della popolazione, quando le autorità hanno usato i tracciati dei gestori telefonici per quantificare le persone in giro per le città hanno misurato al minimo un 35 – 40% della popolazione in movimento, e questa è la beffa del lockdown basato sui codici ATECO! Se poi considerassimo che gli addetti all’industria manifatturiera (inclusi gli impiegati) non arrivano a 4 milioni, avremmo la prova evidente che il lockdown è stato organizzato come un vero suicidio economico e logico, e le strade hanno continuato a veicolare il contagio grazie a milioni di persone che uscivano a passeggiare il cane, a fare jogging o a fare la spesa.
Se avessimo lasciato lavorare indiscriminatamente tutte le aziende della manifattura e i servizi essenziali e avessimo mandato la spesa a casa a tutti gli altri con corrieri e/o militari avremmo potuto contenere la percentuale di gente in giro al 25 – 30% senza rischiare di compromettere le aziende della manifattura, cioè l’ultima reale sorgente di ricchezza del paese, visto che il turismo straniero non potrà portare nulla ancora per un po’. L’improvvisazione e la scarsissima percezione dell’universo aziende ha messo il governo fuori strada.
Non sappiamo se un governo democratico abbia la facoltà di scegliere chi può produrre, vendere, comperare, camminare, ballare, o giocare e chi invece debba per forza veder svanire la sua attività, la sua vita o il suo futuro, ma sappiamo che se la nostra casa deve essere abbattuta per un superiore bisogno pubblico, come la costruzione di una strada, il danno che ne riceviamo ci dovrebbe essere indennizzato a carico del bilancio pubblico, e questo è la conseguenza di uno dei principi cardine del nostro ordinamento civilistico: la responsabilità civile; sappiamo però altrettanto bene che in una situazione come quella attuale le finanze pubbliche non sono in condizione di ristorare appieno il nostro danno economico e quello di tanti altri come noi.
Ma se un governo deve per forza scegliere quali attività chiudere e quali permettere, per raggiungere un determinato livello di contagio, e non è in grado di rimborsare in tempi brevissimi il danno ai soggetti penalizzati, deve cercare almeno di ripartire il disagio e il danno nel modo meno distorsivo possibile e in modo da minimizzare l’onere per i singoli individui o categorie.
La riapertura delle attività economiche (e della vita sociale) dopo il lockdown sarebbe condizionata ad una verificata consistente riduzione della velocità di diffusione del contagio, e il rischio prodotto dalla riapertura è quello di far “ripartire” il contagio su ritmi che potrebbero di nuovo mettere in crisi il sistema sanitario, cioè il rischio è che una maggiore libertà di movimento delle persone possa aumentare le prossimità ed i contatti interpersonali, e con esse i contagi.
Ma sia la diffusione del contagio, sia i tempi di inizio dell’epidemia, sono molto diversi a seconda delle varie regioni e delle provincie all’interno di queste, e la circolazione di soggetti provenienti da zone diverse presenta differenti capacità di contagio, come la ricezione nel proprio territorio di soggetti contagiosi potrebbe avere effetti differenti ed addirittura opposti tra le varie regioni con differenti distribuzione dei già contagiati e (presumibilmente) immuni.
Lo scopo di una riapertura graduale nel tempo, o di una apertura parziale di alcune attività economiche o sociali, è appunto quello di avere in giro il minor numero di persone possibile, e soprattutto con il minor numero possibile di produzione di nuovi contagi, contagi che non dipendono esclusivamente dal numero delle persone che escono di casa o che lavorano, ma che sono in funzione di tutte le altre persone che questi lavoratori incontrano in modo ravvicinato nei loro tragitti.
La classificazione a questi fini delle attività economiche tramite i codici ATECO ha già dimostrato la sua totale inutilità, perchè il codice (pensato in altri tempi e per altri scopi) a volte identifica una intera filiera, altre volte solo un segmento, ma la realtà delle aziende e delle produzioni e dei servizi è infinitamente più articolata. Molto spesso un’azienda ha attività diversificate sotto lo stesso tetto (o ragione sociale), oppure prodotti e servizi che afferiscono a filiere differenti (es. una azienda che lavora gomma che produce preservativi, tettarelle per biberon, anti-vibranti per piccoli elettrodomestici e parabordi per navi), rendendo nullo o caotico l’utilizzo di quella classificazione per distinguere tra chi può e chi non deve lavorare. È però altrettanto vero che ogni attività ed ogni modello organizzativo adottato ha differenti conseguenze dal punto di vista del rischio di contagio: una discoteca o un pub sono molto diversi da un ristorante, così come un ufficio tradizionalmente diviso in stanze singole o doppie è molto diverso da un open space o da un call center.
Anche nell’apertura differenziata su base territoriale il criterio non è semplice, sia per la distribuzione sul territorio delle filiere e delle loro componenti, sia per la logistica esterna e l’interdipendenza con altre situazioni necessarie o degne di tutela, ma una cosa è certa: per procedere ad aperture scaglionate territorialmente servono confini invalicabili tra chi può, e chi non può muoversi, e lavorare.
Per costruire uno schema di valutazione e raffronto del rischio contagio tra le varie opzioni servirebbero una quantità impressionante di dati che lo stato stesso dimostra di non poter raccogliere, per cui ci limitiamo ad esporre la natura del ragionamento sottostante.
Ratio: Un primo parametro utile a discriminare tra differenti attività potrebbe essere quello del rapporto calcolato per la singola unità tra gli addetti (e/o i clienti) presenti nella struttura e la superficie realmente destinata.
Sicurezza: Un secondo parametro potrebbe essere collegato alle modalità organizzative e logistiche interne dell’attività che si vuole svolgere (dispositivi e protezioni, percorsi, modalità di lavoro, contatti e vicinanza, ecc.), incluso il ricorso a riorganizzazioni anche radicali con forme di smart working o di riformulazioni del prodotto servizio.
Logistica: Un terzo parametro non trascurabile è quello della logistica esterna, vale a dire come dipendenti e clienti raggiungono il sito dell’attività, cioè quali rischi di contagio si creano nel viaggio da e per il sito dove si esercita l’attività.
Sociale: Infine un quarto parametro dovrebbe utilmente essere collegato al grado di necessità o di utilità privata o sociale dell’attività in oggetto, e in subordine alla sua realizzabilità pratica, vale a dire dell’esistenza di un mercato reale per quel bene o servizio.
Il fattore di rischio generale del contagio conseguente alla riapertura di una singola attività dipende molto dalle modalità di esercizio della specifica attività, come dipende molto dalla logistica generale: un ufficio di 1.000 metri quadrati dove lavorano 150 persone in un centro storico produce molto più rischio contagio di una manifattura con lo stesso numero di dipendenti ma operanti in un opificio manifatturiero disteso su una superficie di 2.000 metri quadri e situato in un quartiere industriale periferico. Inoltre il settore manifatturiero spesso è già abituato (o costretto) all’uso di dispositivi di protezione personali, spesso gli stessi consigliati contro il virus.
Il rischio generale di contagio generato da una singola attività potrebbe essere mitigato da altre azioni che concorrono al calcolo del rischio totale: ad esempio gli addetti di una azienda manifatturiera che opera in periferia, potrebbero ricevere presso l’azienda la spesa settimanale e caricarsela in auto, evitando di intasare i supermercati e risparmiandosi uscite inutili.
Infine una considerazione sullo sport e la cultura e sugli spettacoli con il pubblico pagante; evidentemente queste attività hanno un impatto altissimo sulle possibilità di contagio, ma spesso solo limitatamente alla presenza del pubblico, mentre la trasmissione televisiva dell’evento spesso rappresenta una quota importante dei ricavi e spesso un importante distrazione o divertimento per larghi strati della popolazione, perchè impedirli se realizzati senza pubblico?
Tutto quanto sopra rende evidente che la complessità della materia rende inutilizzabili decreti, discriminazioni e sanzioni messi in atto da un’amministrazione pubblica totalmente inadeguata a questa situazione straordinaria, e solo la responsabilità sociale dei singoli e delle imprese può servire a gestire la ripartenza senza commettere ingiuste discriminazioni, oppure limitandole a pochi casi più facilmente indennizzabili da parte della comunità beneficiaria.
Quello che serve sono solo alcuni principi chiari che non siano troppo interpretabili da chi deve controllare e un sistema di sanzioni da applicare solo dopo una valutazione di qualcuno più qualificato di quelli che si sono visti nei giorni scorsi impegnati nella caccia alle vecchiette che si riposavano sulle panchine.
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