di Giorgio Saibene e Carloalberto Rossi
(Fonte: Maurizio Blondet & Friends https://www.maurizioblondet.it/docente-tedesco-confessa-i-suoi-dubbi-sul-coronabond-e-sul-mes/)
Nei giorni scorsi ho ricevuto un articolo da un collega tedesco, Wolfgang Streeck, direttore emerito del Max Plank Institute di Colonia, che ho tradotto e qui pubblichiamo.
A proposito dell’autore: Wolfgang Streeck è uno studioso di relazioni industriali nelle società capitaliste. Durante i suoi studi ha seguito la fase espansiva dei sistemi di welfare negli anni 60-70, poi ha testimoniato lo sviluppo delle istituzioni nazionali delle economie industrializzate e si è distinto nello studio del suo Paese, la Germania.
Dal 2014 in avanti, ma forse l’anno del suo canto del cigno è stato il 2016, Streeck ha iniziato seriamente a criticare la validità dei fondamenti etici della finanza globale, la speculazione degli operatori finanziari nei meriti e nei metodi, il coinvolgimento di istituzioni sovranazionali in una gestione politica dei Paesi che affidano all’esterno la gestione della propria specificità, e in definitiva a riflettere su come un debitore che aumenti ancora il suo debito difficilmente riuscirà a ripagarlo.
La “solidarietà europea” è in questo momento un tema molto dibattuto anche da altri, e centrale per la possibile ripresa dell’economia italiana (e non solo) dopo la pandemia, ma soprattutto, nella sua accezione finanziaria, per poter far fronte nell’immediato ai pagamenti che la pubblica amministrazione italiana dovrà presto sostenere: gli stipendi e i costi della infrastruttura statale.
Riassumiamo qui brevemente quei concetti, non espressi ma sottintesi, nella sua argomentazione circa l’attuale stato della negoziazione sul prossimo nuovo debito italiano con Bruxelles, e in definitiva con Berlino e Amsterdam.
Il caso italiano è emblematico: siamo la seconda manifattura d’Europa, la sesta al mondo, ma stiamo creando uno schema Ponzi nella gestione del debito estero ormai da molti anni. Sono quasi dieci anni che non abbiamo un governo stabile e questo si fa sentire nella stabilità delle istituzioni del Paese.
Il tema delle relazioni industriali è completamente sparito dal panorama politico italiano da quando il super manager Marchionne CEO di FCA (una volta Gruppo Fiat, che ora è in società al 50% con il governo francese), si trovò da solo a riformare di fatto (senza alcun intervento legislativo o del governo), come parte in causa, il sistema delle relazioni industriali italiane.
Una sana programmazione delle relazioni industriali permetterebbe infatti di intavolare politiche industriali di rilievo, per la produzione, la protezione e lo sviluppo delle aziende e della disponibilità di posti di lavoro.
Ma i governi italiani non hanno mai saputo affrontare i veti posti dal sindacato, al massimo in passato sono intervenuti nelle negoziazioni contrattuali nazionali per colmare la differenza tra le parti con socializzazione delle contribuzioni o con laterali provvedimenti di finanziamento a fondo perduto alle imprese (cosa non piu’ possibile secondo le norme europee) e la crescente difficoltà del sistema industriale e del lavoro non ha trovato una risposta sistematica e strutturale, ma solo una serie di interventi d’emergenza miranti a ridurre la disoccupazione, senza intervenire sulla produttività, spesso onerosi per il budget pubblico, con evidenti conseguenze anche sul debito pubblico, mentre le anomalie strutturali e le difficoltà del settore industriale permangono.
E’ stato finora uno stile di gioco furbo e a corto raggio, che però non ristruttura seriamente le cose, e dal Nord dell’Europa se ne sono accorti. Non usano i cannoni per dirci cosa dobbiamo fare, ma pur sempre, se decideranno di prestarci i soldi, li rivorranno, chiedendoci di cambiare il modo di fare le cose, oppure ci chiederanno di vendere pezzi del Paese per pagare il conto, cosa che di fatto già avviene.
Ad aggravare i problemi di stabilità commerciale, e quindi finanziaria, c’è stato pure l’avvento del WTO, con l’ingresso in grande stile sul mercato europeo della Cina nel 2001: pur avendo accettato di cambiare le regole del gioco, non abbiamo saputo ristrutturare il nostro sistema di relazioni commerciali con l’estero, studiando una strategia e supportando le aziende in una fase di cambiamenti epocali.
Il primo punto su cui Streeck solleva riflessioni nell’articolo che segue e’ il tema della solidarietà europea, e del presunto obbligo morale relativo. La possibilità di sedersi al tavolo e negoziare il debito è un diritto che l’Italia ha, come gli altri Paesi del Sud Europa, ma è supportato da una bassa fiducia, in quanto sono stati fatti grandi programmi a parole, ma nei fatti nessuna riforma strutturale.
In aggiunta, il sistema della finanza mondiale è per Streeck inattendibile, in quanto l’immissione di denaro nell’economia attraverso nuovo debito, senza ristrutturare la situazione, è una manovra che non risolve i problemi, ma anzi li aumenta.
Culturalmente la Germania non vuole fare debito, per l’Italia invece è l’unico modo di operare. Sono due mondi contrapposti: il socialismo mediterraneo contro il sistema corporativo tedesco e del Nord Europa, nel quale il gioco di squadra e la capacità di collaborazione è fondamentale.
Quando è stato creato l’euro, ci hanno proposto di viaggiare in Europa senza cambiare moneta e che saremmo stati protetti dalle speculazioni sulla lira, come avvenuto nei primi anni ’90, ma in realtà perdendo la leva del cambio abbiamo perso la capacità di essere competitivi nel commercio internazionale e di integrarci ai mercati finanziari, subendo comunque la speculazione finanziaria, ma questa volta non sul cambio della valuta, ma sullo spread con i titoli tedeschi.
Per i tedeschi, come per gli italiani, era già noto il sistema di trasferimento monetario dalla periferia al centro, detto “union transfer”, che avviene mettendo nella stessa squadra e nella stessa valuta Paesi con forze e strutture diverse, alcuni dei quali industrialmente ed economicamente forti e centrali, altri più deboli e periferici, abituati alla svalutazione competitiva e al ricorso al debito pubblico.
Avendo fissato regole rigide (l’euro, che Streeck definisce un nuovo gold standard), i Paesi forti al centro del sistema avrebbero dovuto fare un piccolo sforzo per adeguarsi a parametri di gioco più semplici, mentre i Paesi periferici avrebbero dovuto fare un grande sforzo per adeguarsi alle nuove regole.
Il risultato sarebbe stato il successo delle economie piu’ forti e centrali, favorito e rafforzato dalle economie periferiche, che avrebbero contribuito a migliorare la potenza e la capacità di esportazione dei Paesi “forti”.
La storia recente ci dimostra che il modello “union transfer” e’ stato verificato, e che l’aumento del debito ha inasprito i meccanismi di regole e aumentato i tecnicismi della burocrazia europea, per garantire più controllo sugli stati “debitori”.
Il problema dell’Unione Monetaria Europea è strutturale e non può essere sanato dalla retorica morale, perché all’interno dell Unione ci sono Paesi che non hanno le caratteristiche di fare parte di un sistema rigido come l’euro.
In sostanza, pur considerando che, nonostante lo scontro teatrale e mediatico tra i politici italiani e i leader politici del Nord Europa, comunque verranno concessi i prestiti anche se sotto nomi diversi, “eurobond”, “coronabond” o “Mes”, comunque Streeck stima che sarà difficile per i paesi deboli ribaltare la situazione e, continuando a voler giocare la partita nel campo dell’euro, l’Italia rischia di farsi male.
Interessantissimo infine il velato riferimento al “semestre europeo”, parlando di “solidarietà europea”, e al “metodo aperto di coordinamento”, con i quali Streeck allude al sistema di canalizzazione dei fondi europei per la ricerca universitaria come l’unica vera “solidarieta’ europea” e macchina creatrice del consenso proeuro o proeuropeo, insomma una accusa velata all’Unione Europea di aver creato un sistema di corruzione intellettuale nel sistema della ricerca e dell’università finalizzato alla propaganda “europeista”.
“Solidarietà Europea” : troppo o troppo poco?
Wolfgang Streeck — Direttore emerito del Max Plank Institute di Colonia, Germania
Tutto dipende da cosa si intenda con concetto di “solidarietà”. Quando si è trattato di forzare brutalmente il governo greco del partito Syriza, per far tagliare la spesa pubblica in Grecia, firmare un impegno per l’avanzo di bilancio primario e accettare rigorose condizioni per il pagamento dei prestiti concessi, invece di alleggerire il debito totale che gravava sulle spalle dei greci, i governi d’Italia, Spagna e Francia hanno sostenuto in coro la Germania, fermamente supportata sul tema della solidarietà europea da Austria, Finlandia e Paesi Bassi.
Inoltre, gli stessi Paesi dell’area Mediterranea hanno lavorato duramente per tagliare le proprie spese, nel rispetto della volontà di Berlino e Bruxelles, e in linea con le regole del Trattato di Amsterdam, cercando assurdamente di raggiungere la crescita riducendo il debito attraverso l’austerità, per poter rimanere membri in piena regola di questo strano carrozzone che è l’Unione Economica e Monetaria dell’Unione Europea (UEM).
Di conseguenza le loro economie sono rimaste stagnanti mentre il loro debito pubblico è aumentato, per esempio in Italia dal 119 % del PIL nel 2010 a 128 % nel 2019, nello stesso periodo in Spagna dal 62 % al 95 %, in Francia dall’81 % al 96 %. Nella Germania che continua a veder crescere l’esportazione industriale, d’altro canto, il debito pubblico è diminuito dall’83 % al 56 %, ben al di sotto del limite di Maastricht.
Perché è rilevante?
La spesa per l’assistenza sanitaria nel 2017 è stata dell’8,8% del PIL in Italia e dell’8,9% in Spagna.
Di questa spesa, solo il 6,5 % e il 6,3 %, rispettivamente, era coperta dagli enti pubblici, il resto è stato pagato in ticket sanitari dagli utenti o tramite piani di assicurazione sanitaria volontaria. Nel 2017 la spesa sanitaria tedesca è stata dell’11,2%, di cui il 9,5% a carico dell’ente pubblico.
Il diverso impatto del coronavirus in diversi paesi ha cause complesse, tra cui le strutture demografiche, la qualità dell’aria e i livelli di inquinamento, le abitudini di vita familiare e lo stile di vita in generale, in particolare dei cosiddetti “gruppi a rischio” che secondo le statistiche sono gli anziani, e le condizioni di salute generali della popolazione – ma la dotazione di budget dei sistemi sanitari nazionali è probabilmente una di queste.
La stratificazione sociale è importante ed esiste, così come l’accesso all’assistenza sanitaria; al servizio sanitario nazionale del Regno Unito è concesso non più del 7,6% del PIL britannico, dopo decenni di austerità imposta dal governo, e negli Stati Uniti, che hanno la spesa sanitaria di gran lunga più elevata al mondo, pari al 17,1% del PIL, gran parte della popolazione è priva di assicurazione sanitaria e non può nemmeno permettersi un test per il coronavirus.
Guardando alla situazione in Europa e ai Paesi dell’Unione Europea, le relazioni tra i decessi causati da coronavirus e il regime di austerità dell’UEM sono evidenti: la Germania prospera sotto l’UEM, mentre l’Italia, la Spagna e la Francia soffrono.
Purtroppo non sono stati programmati soldi per rendere i sistemi sanitari nazionali adatti ai rischi associati alla “globalizzazione”, rischi che sono noti da molto tempo, non solo dal caso della SARS1 nel 2002/2003. Ripagare il proprio debito per qualificarsi come un buon debitore, per essere i benvenuti ad accettare nuovi e più alti debiti, è la logica dominante che vince su tutto il resto. Magari il prossimo virus se la prenderà comoda e verrà a farci visita solo dopo che i leader politici di oggi saranno andati in pensione?
Cosa ha fatto l’Unione Europea per migliorare questo tipo di “solidarietà europea”?
Esistono meccanismi elaborati per far aderire i paesi al consolidamento fiscale, incluso il cosiddetto “semestre europeo” nell’ambito del cosiddetto “metodo aperto di coordinamento”, rituali messi in scena da quell’elusiva tecnocrazia di Bruxelles i cui sistemi forse possono essere compresi solo dagli specialisti che li studiano da anni, ma sconosciuti alla maggior parte della popolazione. Ma per quanto riguarda il coordinamento per la prevenzione delle epidemie, o per l’assistenza sanitaria in generale c’è qualcuno che se ne occupa?
Una lunga ricerca rivela l’esistenza di un’agenzia dell’UE chiamata Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie (ECDC – European Centre for Disease Prevention and Control https://www.ecdc.europa.eu/en), con sede a Stoccolma, con 280 dipendenti a tempo pieno e un budget annuale di 57 milioni di euro all’anno, di cui nessun cittadino europeo ha mai sentito parlare, a meno che non capiti di essere un epidemiologo.
Quest’istituzione ha mai verificato se i paesi membri disponessero di maschere, vaccini, ventilatori in quantità sufficiente e personale addestrato nel caso in cui si manifestasse una pandemia virale?
Ad esempio, hanno tenuto corsi di formazione per operatori sanitari e sociosanitari sui protocolli d’igiene ospedaliera, il distanziamento sociale, le profilassi di igiene da estendere alla popolazione e la prevenzione delle malattie nelle case di riposo per anziani?
Hanno avvertito l’opinione pubblica europea che vivere la vita globale può essere mortale se non si è preparati ad affrontarne i rischi associati alla circolazione di merci e persone, e che prepararsi per assicurarsi da questo rischio è tutt’altro che economico?
Ovviamente non lo hanno fatto – o almeno nessuno ne ha sentito parlare, il che è lo stesso, e non sarebbe sorprendente se, tra le ragioni di ciò, fosse contemplato il fatto che tali avvertimenti del Centro europea per la prevenzione fossero stati in conflitto con le linee guida di consolidamento del bilancio emessi anno dopo anno dai vari esercizi di austerità, che hanno alimentato la macchina di esportazione tedesca mentre deprimeva la crescita e aumentava il debito dei Paesi che non hanno le caratteristiche per far parte di un regime monetario rigido come l’Euro?
Ora si parla di un altro tipo di solidarietà, che chiede agli stati del Nord, i beneficiari dell’UEM, di salvare finanziariamente le vittime del coronavirus negli stati del Sud, sotto forma di ricompensa per aver adottato le politiche di austerità richieste e per il particolare merito di aver partecipato al “salvataggio” della Grecia.
Ora, al Sud, riusciranno finalmente, grazie all’emozione dei danni economici causati dal coronavirus, ad ottenere ciò che hanno sempre chiesto a gran voce e mai ottenuto: l’assistenza fiscale senza condizioni, in aggiunta agli “Eurobond”, ora che verranno chiamati per l’occasione “Coronabond”?
Sembra una cosa da non credere che, al di là di qualsiasi dubbio, le classi politiche dell’Europa meridionale non sappiano che qualunque cosa possano ottenere dal Nord sotto il regime di Maastricht, il prestito cadrà sempre sotto gli effetti che fino ad ora abbiamo osservato tutti per le decisioni prese in stile Draghi: e credetemi, non sarà mai abbastanza.
Chi può seriamente aspettarsi che al termine di un decennale declino dell’Italia, ma anche della Francia, sotto questa forma di “dittatura” monetaria e fiscale dell’UEM, la situazione negativa venga interrotta e addirittura ribaltata grazie all’iniezione di alcuni miliardi di euro nell’economia, provenienti dai contribuenti del Nord Europa e dalla BCE?
Penso si possa ragionevolmente considerare che il massimo che questo scenario possa offrire è un’opportunità di allargare le pubbliche relazioni per i politici “pro-europeisti”, ovvero pro-UEM, facenti parte di quei governi dell’Eurozona meridionale che saranno pronti ad affermare trionfalmente ai loro cittadini di aver conseguito una vittoria storica sugli avari olandesi e tedeschi.
Questo successo potrà essere sufficiente a mantenerli al potere ancora un po’, e perché questo accada, la banda Merkel & Company sono indubbiamente disposti a pagare molto di più di quanto le loro costituzioni nazionali e i trattati europei consentano.
Ma poter considerare di tenere Salvini e Le Pen fuori dai giochi, non è proprio la stessa cosa che rilanciare e ristrutturare le economie in declino dei loro paesi.
Anche se nel caso attuale del coronavirus, ci immaginassimo di portare la spesa sanitaria in Italia e in Spagna al livello della spesa tedesca, che richiederebbe un aumento di spesa annua superiore al due percento dei loro PIL, è una strategia completamente irrealizzabile anche con l’intervento del più generoso sistema monetario atto a “drenare le periferie” dell’Eurozona.
La vera domanda che nasce, quindi, è perché le élite politiche dei paesi condannati al declino sociale ed economico, cui tutti assistiamo, per mezzo dell’UEM, insistano per rimanere nell’euro, piuttosto che negoziare pazientemente con le loro controparti dell’Europa settentrionale per un ritorno pacifico alla sovranità monetaria, per mezzo di un accordo garantito da una buonuscita dorata o addirittura di platino, e poter finalmente riconquistare quella sovranità fiscale – in altre parole: potreste ancora essere una democrazia politicamente responsabile di voi stessi?
Potrebbe forse essere che queste élite politiche abbiano già rinunciato al desiderio di poter governare con successo i loro paesi nel contesto attuale del capitalismo moderno, lasciando da parte le baruffe con olandesi e tedeschi per il divertimento dei loro elettori?
I politici dell’Europa meridionale sono ancora seri riguardo all’autogoverno su cui le loro costituzioni democratiche sono basate o stanno cercando di intrufolarsi sotto l’ombrellone dell’Europa settentrionale, dove saranno governati come una parte periferica del regno da Bruxelles, che sottintende alla posizione di Berlino, con o senza Parigi?
Oggi conosciamo i motivi politici per cui hanno voluto unirsi all’UEM dal 1988 in poi, e non sono necessariamente belli e risaputi nel loro Paese: si decise di distribuire una moneta comune, forte in stile tedesco, per dirla all’italiana che avesse il “vincolo esterno”, come strumento per la “modernizzazione” delle loro ingombranti economie politiche attraverso “riforme strutturali” neoliberiste.
I tedeschi sospettavano che ciò potesse non funzionare davvero e si opposero all’euro fino a quando il presidente Kohl concluse che per il bene della riunificazione tedesca, doveva accettare le richieste pressanti di Mitterand.
Oggi, a distanza di tanti anni, invece di aver ottenuto delle “riforme strutturali” delle economie nazionali che producessero felicità e sicurezza, grazie al nuovo “gold standard” europeo, abbiamo ottenuto e imposto austerità, declino economico, un’infrastruttura pubblica sempre più disfunzionale e un crescente movimento di protesta e di rabbia che viene chiamato “antieuropeismo populista”.
Quanto tempo impiegheranno ancora i successori di quella classe politica di “modernizzatori” dell’Europa meridionale degli anni ’90 a rendersi conto che il problema con l’UEM è strutturale, quindi non può essere sanato da nessuna retorica morale e che l’errore storico compiuto ponendo la firma sul Trattato di Amsterdam può essere annullato piuttosto che ricoperto da una costante “solidarietà” filantropica — per non parlare della sconcertante possibilità che la spinta e la motivazione che induceva i modernizzatori a compiere tutte le riforme di libero mercato, non possa portare a un progetto che non ha futuro e che le nostre società, in quanto società capitaliste, possano diventare sempre più ingovernabili?
*****
Le immagini, i tweet e i filmati pubblicati nel sito sono tratti da Internet per cui riteniamo, in buona fede, che siano di pubblico dominio (nessun visibile contrassegno di copyright). In caso contrario, sarà sufficiente contattarci all’indirizzo info@mittdolcino.com perché vengano immediatamente rimossi. Le opinioni espresse negli articoli rappresentano la volontà e il pensiero degli autori, non necessariamente quelle del sito.
———–
Riferimenti bibliografici e fonti:
VoxEU (https://voxeu.org/article/euro-transfer-union-start)
North, D C (1991), “Institutions”, Journal of Economic Perspectives 5(1): 97-112.
Acemoglu, D, S Johnson, and J A Robinson (2005), “Institutions as a fundamental cause of long-run growth”, Handbook of Economic Growth 1A: 385-472.
The Economist (https://www.economist.com/europe/2010/12/02/we-dont-want-no-transfer-union)
Financial Times (https://www.ft.com/content/b32f764e-c09b-11e6-9bca-2b93a6856354)