Patrick J. Buchanan
Questa settimana, ad un editoriale del Wall Street Journal che metteva in guardia contro il ritiro degli Stati Uniti dall’Afghanistan, un esasperato Presidente Trump ha risposto:
“Potreste spiegar loro che siamo stati lì per 19 anni e che, tranne nella fase iniziale, non abbiamo mai davvero combattuto per vincere?”.
È vero? Non abbiamo “mai combattuto per vincere” nel corso dei 19 anni di guerra in Afghanistan, se non quando abbiamo spodestato i Talebani, per la prima volta, nel 2001?
Eppure, ad un certo punto di questa lunghissima guerra contro al-Qaeda e i Talebani, Barack Obama arrivò a portare in Afghanistan 100.000 soldati americani!
Il problema è quindi di terminologia. Nelle “guerre senza fine” del Medio Oriente … cosa significa davvero “vincere”?
Chi è cresciuto a metà del XX secolo per “vittoria” intende quella del Gen. MacArthur, che si trovava sul ponte della Corazzata Missouri nella baia di Tokyo mentre i diplomatici giapponesi firmavano la resa.
La vittoria fu inconfondibile e irreversibile.
Cinque anni dopo il “V-J day” arrivò la Corea, una guerra che durò tre anni e si concluse con uno stallo, ovvero una tregua lungo il 38° parallelo, nel luogo dove la guerra Nord-Sud era iniziata nel giugno del 1950.
Anche quella del Vietnam venne chiamata “guerra senza vittoria”.
Nonostante le truppe statunitensi non avessero mai perso una grande battaglia (nel 1973, quando ce ne andammo, ogni capoluogo di provincia era nelle mani di Saigon), si disse che gli Stati Uniti avevano “perso la guerra” quando l’esercito nordvietnamita invase Saigon nella primavera del 1975.
Ma quella fu una sconfitta geostrategica, non militare.
Il problema dell’America, in questo secolo, sta nel nostro concetto di “vittoria”.
Se è vero che le forze militari statunitensi possono schiacciare qualsiasi avversario del Medio Oriente (lo abbiamo dimostrato in Afghanistan nel 2001 e in Iraq nel 2003), è altrettanto vero che non siamo mai stati capaci di raccogliere il frutto delle vittorie delle nostre Forze Armate.
Non siamo mai riusciti a volgere le nazioni sconfitte verso il nostro modo di pensare. In altre parole, non siamo riusciti a “vincere la pace”.
Possiamo sconfiggere i nostri nemici nell’aria, nel mare e nel cyberspazio … ma non possiamo persuaderli ad abbracciare la democrazia laica e i suoi valori, così come non possiamo convertirli al Cristianesimo.
John Locke non significa nulla per queste persone.
Se pensiamo alla nostra Carta dei Diritti, perché mai i Musulmani devoti (che credono in un solo Dio, Allah, e che Maometto sia il suo unico Profeta) dovrebbero tollerare la predicazione (nei loro Paesi) di eresie che potrebbero far perdere loro l’anima?
Milioni di musulmani hanno un’organizzazione tribale, sono nazionalisti, resistenti agli interventi stranieri e orgogliosamente anti-illuministi.
Con le nostre “crociate per la democrazia” abbiamo cercato di conquistare e convertire persone che vogliono restare come sono.
Non abbiamo la pazienza e la perseveranza necessarie a cambiarli.
Come imperialisti, inoltre, noi americani siamo un fallimento. L’interesse nazionale di quei Paesi finisce inevitabilmente con l’affermarsi.
Spendiamo vite e denaro a tempo indeterminato, ma non abbiamo alcun interesse vitale nel fatto che le terre che occupiamo siano governate da monarchi, democratici, dittatori o demagoghi.
Ci manca la volontà, oltretutto, di occupare quei paesi fino a quando non accettano le nostre idee e i nostri ideali.
Quindi, se non ci attaccano, perché non li lasciamo in pace?
I nostri nemici in Medio Oriente non hanno mai sconfitto i nostri militari. Ma durano più a lungo. Hanno una scorta inesauribile di volontari disposti a rinunciare alla loro vita effettuando attacchi suicidi.
Sono disposti a combattere e a sacrificarsi all’infinito. Non aderiscono alle nostre regole di guerra.
Ci prendono per stanchezza … fino a quando, ad un certo punto, ce ne torniamo a casa.
Rifiutano di arrendersi e di sottomettersi perché hanno il loro credo, i loro valori, la loro fede, le loro tradizioni, la loro tribù, il loro Dio, la loro cultura, la loro civiltà, il loro onore.
Combattono in quella che, dopo tutto, è la loro terra, non la nostra.
Non stanno cercando di cambiarci. Siamo noi che stiamo cercando di cambiare loro, anche se vogliono restare così come sono.
Woodrow Wilson, riferendosi ai nostri vicini del sud, dichiarò: “Insegnerò alle repubbliche latino-americane ad eleggere uomini buoni”.
Ma poi dimenticò l’essenza della verità lanciando l’insulto etnico: “non si possono coltivare banane e democrazia sullo stesso pezzo di terra”.
Se è una gara tra forze armate, vince l’America. Possiamo imporre la nostra volontà ad un certo Paese, ma non possiamo vincere il suo assenso.
Le popolazioni resistono fino a quando non ci stanchiamo di volerle educare.
Storicamente, gli Afghani sono fondamentalisti, tribali e impermeabili all’intervento straniero.
La domanda è questa, cosa faranno i Talebani quando noi ce ne andremo?
Non rinunceranno al loro sogno di tornare a governare la nazione e il popolo afghano.
Combatteranno finché non avranno raggiunto quest’obiettivo e la loro idea di vittoria: “il dominio”.
Se 100.000 americani che combattono al fianco dell’Esercito Afghano non sono riusciti a farli arrendere, perché dovrebbero accontentarsi di una mezza pagnotta e accettare un compromesso?
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Link Originale: https://buchanan.org/blog/what-does-winning-mean-in-a-forever-war-138585
Scelto e tradotto da Franco
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