Ted Galen Carpenter per The American Conservative
Il sostegno diplomatico e militare a Taiwan è cresciuto notevolmente negli anni di Trump.
L’Amministrazione ha preso numerosi provvedimenti per dare impulso a questo sostegno — ma anche il Congresso ha portato avanti alcune iniziative.
Una misura-chiave è stata l’approvazione del “Taiwan Travel Act” [TTA] del 2018, che ha autorizzato i Funzionari di alto livello della Difesa e della Politica Estera a interagire con le loro controparti taiwanesi.
Si è trattato di un cambiamento drammatico rispetto alla politica adottata dagli Stati Uniti dal 1979, quando spostarono le relazioni diplomatiche da Taiwan alla Repubblica Popolare Cinese (RPC).
La politica statunitense, inoltre, aveva limitato i contatti ai soli Funzionari di basso livello.
Misure congressuali più recenti hanno cercato di sottolineare come gli Stati Uniti siano saldamente al fianco di Taiwan.
Non è solo una questione accademica perché, secondo il “Taiwan Relations Act” [TRA] del 1979, gli Stati Uniti sono obbligati a considerare ogni tentativo di coercizione da parte di Pechino come una “grave violazione della pace” in Asia Orientale.
La resistenza degli Stati Uniti all’aggressione cinese nel Pacifico Occidentale è cresciuta ancor più dopo che a maggio Pechino ha imposto a Hong Kong una nuova “Legge sulla Sicurezza Nazionale”, diluendo notevolmente (se non negando) l’autonomia politica che era stata garantita a quel territorio.
L’Amministrazione Trump, con il sostegno bipartisan del Congresso, ha revocato lo “speciale status commerciale” di Hong Kong e ha adottato altre misure punitive.
I leader statunitensi hanno anche chiesto la solidarietà degli alleati, sia in Europa che in Asia Orientale, per una “dichiarazione congiunta di condanna” e per “l’imposizione di sanzioni”, come risposta all’erosione dell’autonomia di Hong Kong.
La mancanza del sostegno delle Capitali Europee crea seri dubbi su quanta assistenza Washington possa aspettarsi se a un certo punto si arrivasse ad una resa dei conti con la Cina sull’indipendenza di Taiwan.
L’appoggio degli alleati sulla questione di Hong Kong, nella migliore delle ipotesi, è stato tiepido e riluttante.
Fra le potenze europee, solo la Gran Bretagna (di cui Hong Kong è stata colonia) si è unita agli Stati Uniti nell’adottare un approccio “duro”. Agli altri alleati europei è mancata qualsiasi volontà di reazione.
Tipico l’atteggiamento del Governo tedesco. Il Ministro degli Esteri Heiko Maas ha sostenuto che il modo migliore perché l’Unione Europea possa influenzare la Cina, nella disputa su Hong Kong, è quello di mantenere vivo, semplicemente, un dialogo con Pechino.
Questa posizione è ben lontana dalla strategia degli Stati Uniti.
La Francia, a sua volta, è sembrata ancor meno desiderosa di unirsi a Washington nel far pressione su Pechino.
Il “South China Morning Post” ha riferito che, in una telefonata al Ministro degli Esteri della Repubblica Popolare Cinese (Wang Yi), il Consigliere Diplomatico del Presidente Emmanuel Macron (Emmanuel Bonne), abbia sottolineato il rispetto della Francia per la sovranità nazionale cinese e la volontà di non interferire nei suoi affari interni su Hong Kong.
La stessa Unione Europea ha dato una risposta “anemica”.
Il 29 maggio i Ministri degli Esteri dell’UE, ansiosi di non restare invischiati nella crescente rivalità fra America e Cina, hanno fatto eco alla decisione della Germania sottolineando la necessità di un dialogo su Hong Kong.
Dopo una videoconferenza fra i 27 Ministri degli Esteri, il Capo della Politica Estera dell’UE, Josep Borrell, ha dichiarato che un solo Paese si è preoccupato di sollevare il tema delle sanzioni.
Borrell ha aggiunto che l’UE non prevede di cancellare o rimandare, nei prossimi mesi, gli incontri diplomatici con la Cina.
Tanti saluti, quindi, all’obiettivo di Washington di creare un “fronte diplomatico” composto da tutti gli Alleati Occidentali, contro le violenze di Pechino a Hong Kong.
Gli Stati Uniti hanno ricevuto un’approvazione solo apparente ai loro sforzi nel Pacifico Occidentale.
All’inizio di giugno il Segretario Generale della NATO, Jens Stoltenberg, ha insistito sul fatto che i membri dell’Alleanza avrebbero dovuto adottare un approccio più globale alle questioni della sicurezza, oggi incentrate essenzialmente sull’Europa e sul Nord America.
Con un implicito riferimento alla Cina, Stoltenberg ha dichiarato che:
“Guardando al 2030, dobbiamo lavorare ancor più a stretto contatto con Paesi che condividono la nostra stessa visione, come l’Australia, il Giappone, la Nuova Zelanda e la Corea del Sud, per difendere le regole e le Istituzioni globali che ci hanno tenuto al sicuro per decenni”.
Nominare quei Paesi non è stata una coincidenza.
Con un palese schiaffo a Pechino, ha sostenuto che la maggior cooperazione con i Paesi non-comunisti del Pacifico mira a creare un ambiente internazionale basato su “libertà e democrazia, non su bullismo e coercizione”.
Stoltenberg, però, sta nuotando controcorrente viste le posizioni dei leader dell’UE e di potenze-chiave come Francia, Germania e Italia, che non hanno alcuna intenzione di adottare politiche conflittuali nei confronti della Cina.
Stoltenberg ha infatti sottolineato che la cooperazione della NATO con i Paesi dell’Asia Orientale non sarebbe stata principalmente di natura militare.
Tuttavia, il sostegno non-militare sarà di scarso conforto per gli Stati Uniti se si verificasse una resa dei conti su Taiwan.
La risposta dei principali “Alleati Asiatici” alle nuove restrizioni imposte da Pechino a Hong Kong non è stata migliore di quella che Washington ha ricevuto dai suoi “Alleati Europei”.
La risposta del Giappone è quella che ha probabilmente maggiormente deluso Washington.
Dopo più di una settimana di dibattito interno, il Governo del Primo Ministro Shinzo Abe ha rifiutato di unirsi a Stati Uniti, Gran Bretagna, Australia e Canada nel rilasciare una “dichiarazione di condanna” per le decisioni della RPC riguardo Hong Kong.
La stampa ha sostenuto che la decisione abbia “costernato” i leader degli Stati Uniti.
La Corea del Sud sembra ancor più determinata del Giappone ad evitare di schierarsi nella disputa fra Stati Uniti e Cina.
Il punto è che, ad eccezione dell’Australia, gli Stati Uniti non possono contare sui loro Alleati dell’Asia Orientale per ricevere sostegno diplomatico su Hong Kong.
Tale risultato non è di buon auspicio se Washington dovesse cercare un sostegno più forte — soprattutto militare — nel caso di un’aggressione della Repubblica Popolare Cinese a Taiwan.
Purtroppo, la prospettiva di una tale aggressione sta aumentando rapidamente.
Pechino ha esplicitamente rimosso il termine “pacifica” dal suo dichiarato obiettivo di indurre Taiwan ad accettare l’unificazione con la terraferma.
Altrettanto preoccupanti le esercitazioni militari della Repubblica Popolare Cinese nello Stretto di Taiwan, che stanno diventando sempre più frequenti e minacciose.
Il 9 giugno i “caccia cinesi” hanno violato per l’ennesima volta lo spazio aereo di Taiwan costringendo Taipei ad inviare i propri aerei per intercettare gli intrusi.
Il livello complessivo di tensione e animosità fra Pechino e Taipei è al livello peggiore degli ultimi decenni.
Washington deve affrontare la prospettiva di essere chiamata ad agire nell’ambito del TRA per difendere la sicurezza di Taiwan.
L’innesco potrebbe essere un attacco della Repubblica Popolare Cinese contro alcune delle piccole isole periferiche di Taipei, al largo della terraferma o nel Mar Cinese Meridionale.
Non si può nemmeno escludere un assalto frontale a Taiwan. Questi sviluppi metterebbero immediatamente alla prova la serietà e la credibilità dell’impegno statunitense.
Peggio ancora, gli Stati Uniti potrebbero benissimo essere costretti ad una guerra in solitaria.
Gli alleati europei quasi certamente non si immischierebbero in una guerra fra Stati Uniti e Cina.
La reazione di Australia, Corea del Sud e Giappone, a sua volta, sarebbe incerta.
L’aggressione della Repubblica Popolare Cinese contro Taiwan sarebbe una perturbazione molto più grave alla sicurezza dell’Asia Orientale rispetto alla “stretta” su Hong Kong.
Tutti e tre i paesi si troverebbero davanti ad un angosciante dilemma. Se si unissero alla difesa militare di Taiwan, guidata dagli Stati Uniti, dovrebbero affrontare delle gravi ritorsioni.
Tuttavia, se lasciassero gli Stati Uniti “impiccati”, i leader statunitensi, infuriati per un tale tradimento, metterebbero fine, probabilmente, alle Alleanze Militari con quei Paesi.
Si tratta in ogni caso dell’ennesimo fattore di rischio di cui Washington dovrà tener conto nel calcolare il rapporto rischio/beneficio della difesa di Taiwan.
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Link Originale: https://www.theamericanconservative.com/articles/u-s-leads-a-coalition-of-one-against-china/
Scelto e tradotto da Franco
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