Due pesi e due misure per mafia capitale? Molti se lo chiedono. In realtà le asimmetrie in termini giudiziari in Italia sembrano abbastanza ricorsive, vedasi le manette facili con Tangentopoli I. E poi quella che sembrerebbe essere stata la seconda Tangentopoli, quasi a voler eliminare dai posti di potere il gruppo del centro destra post 2011. Lasciando perdere il caso di Cossiga che, prima della caduta del muro, minacciò di interrompere manu militari una riunione del CSM che avrebbe dovuto trattare la possibile censura di Craxi, ancora primo ministro. Anche durante le incarcerazioni facili del Pool Mani Pulite ci fu il caso emblematico di Justice Antonin Scalia, giudice Supremo USA, che andò spiegando ai membri del Pool che la custodia cautelare in carcere italica andava contro i principi di democrazia USA in quanto limitava il diritto alla difesa degli imputati (…). Oggi è parimenti innegabile – e inaccettabile, soprattutto nella Patria del Beccaria – che un soggetto come Massimo Carminati sia stato tenuto per circa 4 anni al regime durissimo, a Tolmezzo, del 41 bis per poi vedere non confermata la presenza di mafia.
In tutto questo l’elemento dirimente sono forse proprio le parole del giudice Pignatone, il procuratore capo di Roma dove Mafia Capitale è nata e poi abortita, il quale a Dogliani anni fa (2015) ebbe ad affermare, più o meno, che troppo spesso vengono usate le intercettazioni e la loro pubblicazione anche solo per danneggiare il soggetto indagato, ad esempio se tale comportamento (il diffondere al pubblico le intercettazioni, ndr) possa non essere utile per provarne la colpevolezza. Pignatone si spinse oltre affermando – con biasimo – che se le prove non sono sufficienti basta pubblicare le intercettazioni per danneggiare l’indagato… (più o meno) mentre un giudice avrebbe l’obiettivo di provare la colpevolezza di un presunto colpevole e non danneggiarlo diffondendo le intercettazioni alla stampa. Alleghiamo il LINK con la registrazione delle sue parole (al minuto 22:45), a scanso di equivoci dovete ascoltarle e trarre le vostre conclusioni (se non funziona il link provate QUI).
Visto l’accaduto su Mafia Capitale tale precedente sembra assolutamente – e tristemente – significativo. Infatti un paese dove la giustizia è eccessivamente e mediaticamente fallace resta a rischio implosione nel lungo termine (…).
Vi lasciamo dunque alla lettura del pezzo di qelsi.it.
Due pesi e due misure sulla giustizia: inflessibili solo su “Mafia Capitale”?
di Enrico Maria ferro
Era il 2012 quando L’Espresso iniziò a parlare di alcune organizzazioni criminali operanti su Roma, che molto presto furono oggetto di una inchiesta che, dopo i primi arresti operati nel 2014, fu definitivamente denominata “Mafia Capitale”.
Da allora, per circa cinque anni, questo termine è costantemente rimbalzato sulle cronache giornalistiche e nei servizi televisivi di tutta Italia, sostanziando una vigorosa campagna mediatica che ha presentato la Capitale d’Italia come una città totalmente controllata dalla criminalità mafiosa.
Per di più, questa immagine di una Roma mafiosa è stata sistematicamente associata, attraverso strane alchimie relazionali, incentrate sulla figura dell’ex membro dei NAR Massimo Carminati, al mondo politico della destra.
Peccato che le risultanze processuali abbiano dimostrato ampiamente che gli episodi di corruzione, all’interno dell’Amministrazione Capitolina, siano stati principalmente opera di Salvatore Buzzi e della sua galassia di cooperative, che erano cresciute e si erano affermate nell’ambiente di sinistra già dai tempi delle amministrazioni dei sindaci Rutelli e Veltroni.
D’altra parte numerosi esponenti del PD hanno ammesso di aver ricevuto denaro, finanziamenti, e sponsorizzazioni da Salvatore Buzzi, mentre insieme al Campidoglio, l’altro grande scenario dell’inchiesta è stata la Regione Lazio amministrata del centrosinistra. In particolare, Luca Odevaine, ex braccio destro di Veltroni, ha avuto una pesante condanna in questa vicenda giudiziaria, e, insieme a lui, sono state acclarate le responsabilità di numerosi esponenti del centrosinistra.
È fuor di dubbio che ormai da anni, non soltanto nella capitale romana, ma su gran parte del territorio italiano, ed in particolare nelle città del Nord, come la stessa Milano, si riscontrino interessi economici criminali di associazioni come la mafia, la camorra e la ‘ndrangheta. Questo ha costituito un preciso campo d’indagine che ha prodotto ben definiti riscontri processuali.
Ma è significativo notare che il termine Mafia Capitale sia stato coniato esclusivamente in riferimento alla presunta associazione di Buzzi e Carminati. Sembrava a tutti gli effetti una comoda forzatura sostenuta dal noto, consolidato sistema mediatico per colpire una precisa parte politica, a vantaggio di un’altra. Ma tutto questo non si poteva affermare a gran voce per difendere l’immagine della Capitale e della destra romana.
Peccato però che nel 2019, a dirlo, e poi ribadirlo nel 2020 col deposito delle motivazioni della Sentenza, sia stata proprio la Suprema Corte di Cassazione.
Il teorema costruito da Giuseppe Pignatone e dal suo pool che individuava una Cupola mafiosa, dominante sull’Amministrazione Capitolina, è stato negato e smantellato. Così come, la Suprema Corte ha altresì negato sia l’esistenza del metodo mafioso, sia quella dell’assoggettamento omertoso.
Tutto si è ridotto all’individuazione dell’operato di due distinte associazioni per delinquere dedite all’estorsione ed alla corruzione, facenti capo la prima a Carminati e la seconda a Buzzi.
Ciononostante, sembra quasi che a qualcuno dispiaccia non poter più parlare di Mafia Capitale. Questo termine, è stato così abusato e diffuso che in effetti ancora non decade dal linguaggio comune.
Ora, a meno di non voler mettere in dubbio la competenza giudicante della Suprema Corte di Cassazione, viene da chiedersi perché questa sentenza abbia suscitato tanta sorpresa e delusione da parte di coloro che si professano come i primi custodi del garantismo, e viene anche da chiedersi se il danno di immagine che ha subito la Capitale possa mai essere veramente sanato.
Era così difficile capirlo prima, che non si trattava di una organizzazione mafiosa?
Persino Antonio Ingroia, che certo non è un Magistrato di destra, e che però si è occupato ampiamente del fenomeno mafioso, nel corso di una intervista rilasciata al quotidiano “L’Informazione”, ha dichiarato al giornalista Luciano Mirone: “L’indagine condotta da Pignatone è un bluff molto pompato dai media, nella quale è emerso un grumo di affari illeciti di una piccola associazione politico-criminale, come in Sicilia ne esistono a decine, enfatizzata come se fosse una nuova forma di mafia ramificatasi a Roma.”
Sempre Ingroia, a proposito del fatto che il nome di Pignatone emerge nel caso Palamara, nello stesso articolo dichiara che a Roma, in fondo, non sono state fatte grandi indagini sul Potere. La vicenda Consip-Renzi è stata archiviata, e poi continua così: “Non è un caso che la sua carriera (di Pignatone, n.d.r.) sia stata luminosa ed accompagnata da consensi unanimi da parte delle correnti della magistratura, della politica e dei media, mentre altri magistrati hanno sempre avuto ostacoli e difficoltà (vedi Falcone e Borsellino)”.
Ingroia continua: “Pignatone ha archiviato le indagini sul caso Manca, nonostante dichiarazioni univoche e circostanziate di quattro pentiti, i quali hanno parlato di omicidio voluto da cosa nostra ed eseguito dai servizi segreti deviati, nell’ambito della trattativa Stato-mafia, poiché Manca sarebbe stato coinvolto nell’operazione alla prostata di Bernardo Provenzano”.
Ingroia ricorda ancora che nel corso del processo Stato-mafia, quando le intercettazioni coinvolsero Giorgio Napolitano, generando lo scontro col Quirinale sul conflitto di attribuzione, la ANM di Palamara si “schierò contro di noi e a difesa del Quirinale”.
Ricorda ancora Ingroia che Pignatone e Prestipino (fedelissimo di Pignatone, che oggi dirige la Procura di Roma) hanno sì coordinato le indagini su Provenzano, ma che il merito del suo arresto è da attribuirsi ai poliziotti che hanno condotto le investigazioni. Viceversa, secondo Ingroia, vi fu il rifiuto di rischiarare le zone d’ombra attorno alla latitanza di Provenzano.
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