Redazione:
E’ la settimana della Convention Virtuale del DNC.
Stanchi di un povero vecchio che non ce la fa più e di un’arrivista disposta a tutto, ci è venuto in mente di affrontarla da un altro punto di vista. Quello di Armond White.
Sentir parlare di “Revolution” e di “Street Fighting Man” (sfogatevi pure su you tube), di Beatles e Rolling Stones, è in effetti uno shock emotivo per quanti hanno fatto il ’68.
Lo è anche il dover leggere di strani cantanti come questa Cardi B, la cui miglior qualità è quella che continua a sbatterci in faccia.
Crediamo che la buona politica sia figlia della cultura e che, forse, sia solo snobismo ignorare quella pop-liberal, anche se non sempre la comprendiamo.
L’articolo è quindi una sfida per tutti coloro che ci ricordano quanto sia importante seguire gli afflati della cultura dei giovani.
Se c‘interessa il loro consenso … è anche di Cardi B che dobbiamo parlare. Proviamoci.
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Armond White per The National Review
Una settimana prima della “Convenzione Nazionale Democratica” del 1968 i Beatles pubblicarono “Revolution”, prendendo alla sprovvista un’intera generazione che pur si fidava di loro.
I critici-pop più accaniti si risentirono perché “Revolution” andava contro il movimento studentesco.
Alcuni si sentirono traditi, altri dedussero che bisognava comunque dissentire.
Il tempo ha dato ragione ai Beatles, che si rifiutarono di prestare il fianco alla violenza, alla distruzione e all’autocompiacimento.
Fu un notevole momento di saggezza da parte della cultura pop — anche se il titolo della canzone aveva bisogno di un punto interrogativo.
Al contrario, la Convention Virtuale del DNC di questa settimana non ha incontrato alcuna opposizione culturale.
“WAP”, l’inno di Megan Thee Stallion e di quella gran pt… di Cardi B mostra i valori degradati con cui i musicisti-pop liberal contribuiscono alla Convention.
La formazione pop del DNC, da John Legend a Billie Eilish, è davvero banale (la versione drag-queen di “For What It’s Worth” di Stephen Stills e Billy Porter, più che banale è ridicola).
Favorire l’ambigua relazione fra “musica rock”, “cultura pop” e “ribellione” — senza il monito dei Beatles — rende inaccettabile il sostegno delle celebrità alle proteste, alla violenza e all’anarchia.
Phillipa Soo di Broadway sostiene la “rivoluzione” proprio come fecero gli hippy del ’68, che interpretarono le riserve di John Lennon come un grido di protesta.
Nel suo ultimo progetto commerciale, Soo si è vantata di essersi ispirata dapprima al testo di Hamilton “We’re in the greatest city in the world”, ma poi a “Revolution is messy, but now is the time to stand up”.
Questo mal interpretato senso della storia americana è assolutamente in sintonia con Hamilton.
Ancor peggio, il commento di Soo sulla “rivoluzione” va in parallelo con quello della Deputata “Squad” Ayanna Pressley, che ha giurato alla MSNBC: “Abbiamo bisogno dei disordini lungo le strade. Devono esserci disordini nelle strade finché ci saranno disordini nelle nostre vite”.
Né Soo né Pressley sembrano aver molto apprezzato il significato di “Revolution”.
Indifferenti alla distruzione delle città, lo sono anche per quello che i Beatles hanno cantato: “Ma se parlate di distruzione/Sapete di non poter contare su di me”.
Il passaggio “Ma se portate in giro la foto del Presidente Mao/Non ce la farete comunque con nessuno” potrebbe benissimo essere stato ispirato dall’anti-maoista “La Chinoise” di Jean-Luc Godard, uscito negli Stati Uniti nello stesso anno.
Anche se molti critici cinematografici si rifiutano di riconoscere lo scetticismo di Godard.
Nel 1980 John Lennon ribadì questo punto: “Il testo è valido anche oggi … Voglio vedere il progetto. Questo è quello che dicevo agli attivisti Abbie Hoffman e Jerry Rubin. Non contate su di me si riferisce alla violenza. Non aspettatemi sulle barricate se non con un fiore in mano”.
Senza dubbio Lennon, Hoffman e Rubin conoscevano le conseguenze della rivoluzione più di quanto Soo e Pressley siano disposti ad ammettere.
L’ammirazione di Soo per “Revolution is messy …” esprime una sorta di rimpianto post-obamiano e la brama di potere di Washington.
La posizione di Soo è quella dell’élite, che sostiene la violenza degli Antifa e che definisce ogni sommossa come una “protesta pacifica”.
Lo showbiz dei millenial, per lo più in sintonia con il Partito Democratico, stravolge il significato del tradizionale umanesimo.
Uno spot televisivo si è persino appropriato del discorso de “Il Grande Dittatore” di Chaplin: “Lotta aveva un significato completamente diverso quando c’erano i veri nazisti (e gli alleati russi)”.
Nonostante il radicalismo alimentato di media e dalle Università, la maggior parte delle persone non conosce abbastanza il comunismo o il socialismo per distinguere fra Marx e Lenin. Segue le tendenze dei media.
Una delle preoccupazioni di cui spesso parliamo è la persistente mancanza di originalità e di fantasia della “cultura” e della “politica”.
I millenials del pop mancano d’impegno morale e non sanno più come articolare il sentimento nell’arte.
Quando i Rolling Stones lanciarono “Street Fighting Man”, per capitalizzare il populismo degli anni Sessanta, non fecero che esprimere la loro comoda distanza e ambivalenza.
Ecco perché i Beatles risposero con la definitiva negazione della violenza di strada.
Michael Jackson mise insieme entrambe le posizioni politiche nel suo grande “Black or White” del 1991 (che comincia con un riff di “Street Fighting Man” e finisce con una nota di chitarra tratta da “Revolution”).
La Convention Democratica di questa settimana sfrutta le stesse tensioni sociali che Jackson aveva affrontato nel suo brano, solo che stavolta è in gioco l’anarchia.
“Revolution” dei Beatles resta un faro che le pop-star liberal di oggi disonorano.
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Link Originale: https://www.nationalreview.com/2020/08/what-the-beatles-revolution-means-50-years-later/
Scelto e tradotto da Franco
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