Roger Kaplan per The American Spectator
Lunedì scorso i Governi di Ungheria e Polonia hanno posto il veto al bilancio semestrale dell’Unione Europea e allo speciale “Recovery Fund” della Commissione Europea (il suo organo esecutivo).
Questi soldi si aggiungono a quelli già spesi (duemila miliardi di dollari americani), la qual cosa suggerisce che fra Bruxelles e Strasburgo si stia davvero parlando di soldi veri, come il defunto Sen. Everett Dirksen avrebbe senz’altro notato.
Ma si sta parlando solo di soldi, o c’è qualcuno che vuol mettere il naso negli affari interni di altri Paesi che sarebbe meglio, invece, lasciare in pace?
E’ questo è il punto di vista dei Partiti al governo di Ungheria e Polonia.
Non sono contrari al “pacchetto di stimolo” e al “bilancio pluriennale”, dai quali ricevono molto più di quanto danno.
Ciò a cui si oppongono “Fidesz” (Alleanza Civica, Ungheria) e “Prawo i Sprawiedliwość” (Diritto e Giustizia, Polonia) è il pre-requisito preteso dall’UE, che gli Stati membri si conformino alla sua definizione di “Stato di Diritto”.
I Commissari UE a Bruxelles — e i Deputati del Parlamento Europeo a Strasburgo — sono ansiosi di distribuire l’enorme pacchetto di aiuti per l’epidemia, oltre che di concordare il budget per i prossimi sei anni.
Tuttavia, nonostante ci si trovi in un momento di grave incertezza sulla gravità e sulla durata della “seconda ondata” del virus, a Bruxelles ritengono che non si possa prescindere dal mettere un’ipoteca sul futuro dei due Paesi!
Palese il tentativo di vincolare la concessione dei fondi al rispetto dello “Stato di Diritto” in assenza del quale, sostengono, i fondi stanziati non verrebbero conferiti.
Gli ungheresi e i polacchi considerano questa pretesa come un’ingerenza nella loro sovranità e si rifiutano di andare avanti.
I veti potrebbero innescare una complicata procedura volta a privare (o a diminuire) i due Paesi delle loro assegnazioni.
Ma, nel frattempo, il pacchetto di aiuti resterà fermo per tutti.
In effetti, le due parti stanno fissandosi a vicenda.
Gli eurocrati, più esattamente i politici a cui rispondono nell’Europa Settentrionale e Occidentale, insistono che lo stanno facendo in nome del “buon governo”.
Per buona misura, dicono anche di difendere la democrazia.
Viktor Orbán ha definito il suo programma politico “democrazia illiberale” mentre altri, tra cui il suo Ministro della Giustizia (Sig.ra Judit Varga), parlano più formalmente di una Democrazia Cristiana con un forte accento sulla difesa del carattere nazionale ungherese.
Nelle Cancellerie dell’Europa Occidentale tutto questo non viene accettato, nonostante Fidesz abbia conquistato tre maggioranze parlamentari di fila, l’ultima delle quali nel 2018.
Un nuovo blocco costituito dall’”opposizione unita” ha guadagnato terreno nelle elezioni comunali dell’anno scorso (vincendo a Budapest), ma ha perso un Deputato alle elezioni suppletive di ottobre.
Il prossimo Parlamento sarà eletto nel 2022.
Judit Varga osserva che confondere le questioni di bilancio con le Costituzioni degli Stati membri costituisce un terribile precedente.
Questo è anche il punto di vista del Governo Polacco, i cui leader insistono sul loro diritto di progettare il proprio “sistema giudiziario” prescindendo dai regolamenti dell’UE — ammesso che qualcuno sappia con esattezza cosa siano.
I “sistemi giudiziari” degli Stati membri dell’UE sono tutt’altro che uniformi — e nessuno si è mai aspettato che lo fossero.
Ma, a parte la sovrastruttura dialettica, quello che agita i critici non è la fondamentale questione su come definire lo “Stato di Diritto”, sottolinea la Varga.
Secondo l’ideologia laica, l’elemento fondamentale dello “Stato di Diritto” è la Magistratura che funziona indipendentemente dall’”autorità politica”.
Ma, secondo questo standard, la maggior parte dei paesi, in Europa e nel mondo, dovrebbe essere colpevolizzata.
La Varga, che questa settimana è intervenuta da Budapest in una videoconferenza sponsorizzata dalla “Fondazione Amici dell’Ungheria”, osserva che l’ultimo rapporto sullo “Stato di Diritto” dell’UE arriva, per coincidenza o per convenienza, proprio quando è sul tavolo il mastodontico piano d’aiuti.
Di conseguenza, i Governi ungherese e polacco sono messi sotto pressione perché cedano e facciano fluire il denaro.
Ma, come ha spiegato in Ungheria Today e in molti altri media, in particolare sul tedesco “Welt” e sull’europeo “Politico”, la Commissione deve promuovere un’agenda politica, non giurisprudenziale.
La Commissione sostiene di voler migliorare il modo in cui la Polonia e l’Ungheria gestiscono le loro magistrature, insiste la Varga.
Ma ciò che davvero irrita i Commissari è la politica restrittiva del Governo di Orbán in materia d’immigrazione.
A loro non piacciono le politiche apertamente cristiane e filo-familiari di entrambi i Paesi.
Sono inorriditi nel constatare che nella legge polacca e ungherese gli uomini e le donne sono definiti come tali.
Zoltán Kovács, Segretario di Stato per le Relazioni Internazionali, ha spiegato alla Conferenza che l’Ungheria, fin dal 2015 (anno in cui la Cancelliera tedesca Angela Merkel invitò un milione di rifugiati provenienti dal Medio Oriente, aprendo a una cateratta d’immigrati clandestini), è stata coerente, dimostrando sempre di avere ragione.
L’immigrazione, sostiene, non è un diritto umano e richiede sia il rispetto delle leggi che un controllo sistematico — compresi i muri che l’Ungheria ha costruito sui suoi confini.
Il Ministro della Famiglia Katalin Novák, nel suo intervento, ha spiegato che il Governo incoraggia le famiglie numerose con assegnazioni in denaro, prestiti per la casa e altri sussidi — e che non ha alcuna intenzione di ribaltare le sue leggi sull’aborto, ma di continuare a promuovere e proteggere la vita.
Per questo tipo di politiche il Governo di Orbán è stato etichettato con i soliti epiteti degni di un’altra epoca.
Se, oltre a questo, il Governo venisse accusato di corruzione per i fondi europei, allora starebbe solo seguendo gli esempi dei membri occidentali dell’UE (quando era solo un Mercato Comune): i racket che coinvolgevano “i fondi per lo sviluppo, i sussidi agricoli e molto altro ancora” iniziarono non appena furono firmati i primi Trattati.
Il divario fra le due posizioni potrebbe essere troppo grande da colmare se non si riuscisse a raggiungere un compromesso (che quasi certamente equivarrebbe a dare un calcio in avanti alla lattina).
C’è un interesse degli Stati Uniti per questo stallo?
Da un lato non abbiamo interesse a favorire una crisi nell’Unione Europea che potrebbe dare alla Russia — o alla Turchia — un illecito vantaggio nella regione.
In un quadro più ampio, sembrerebbe che l’Unione Europea si trovi a inciampare, a suo modo, in quel tipo di contraddizione che confonde i missionari della democrazia americana.
È ammirevole che i diplomatici e i soldati americani annuncino la loro missione per la libertà, in difesa della quale la democrazia è solitamente riconosciuta come un necessario strumento di governance.
Ma questo, ammettiamolo, è un concetto davvero ampio e astratto.
Non sorprende che, in particolare nel gergo internazionale post-sovietico, lo “Stato di Diritto” venga costantemente pronunciato assieme a “costruire la democrazia”.
Nei due successi americani più spesso citati nella “costruzione della democrazia”, Giappone e Germania, il dossier sullo “Stato di Diritto” fu lasciato ai nativi.
E’ vero, ci furono consigli e contributi americani, ma il principio di funzionamento era che quei Paesi dovessero basarsi sulle loro tradizioni giuridiche.
La maggior parte delle società, dicono gli antropologi, hanno tradizioni giuridiche.
Più si è parlato di “Stato di Diritto” negli ultimi tre decenni, meno è sembrato che si sapesse di cosa si stava parlando.
C’è qualcosa che riconosceremmo come “Stato di Diritto” in Iraq? O a Kabul?
Anche se è troppo educata per dirlo, è proprio questo il punto di Judit Varga.
La funzione di Procuratore, per prendere un dettaglio cruciale di qualsiasi “sistema giudiziario”, varia notevolmente tra i 27 membri dell’UE.
Non è affatto uniforme. La sua indipendenza varia e, di fatto, è oggetto di controversie nella maggior parte dei Paesi.
La questione dello “Stato di Diritto” è certamente fastidiosa.
Ad esempio, il Procuratore Generale polacco, come lo chiameremmo noi, dipende dal Ministero della Giustizia. In pratica, è lui il Ministro della Giustizia.
Le menti giuridiche di Bruxelles non approvano, ma non approvano neppure la totale indipendenza di cui gode il massimo Procuratore in Bulgaria perché, dicono, bada soprattutto alle persone che ritiene “meritino un processo più giusto”.
In Ungheria i Procuratori sono indipendenti, ma c’è stata un certa minimizzazione nei casi che avrebbero potuto toccare gli “amici del capo”, secondo osservatori di diverso orientamento.
Questo, naturalmente, è il nocciolo del problema.
Lo “Stato di Diritto” è una cosa facile da dire — in fondo, significa che è la legge, sia quella data dal Potere Superiore che quella redatta dai Padri Fondatori, ad avere l’ultima parola.
Non è l’uomo ma la legge a governare.
Ma abbiamo ancora bisogno di uomini coraggiosi e d’onore. Date una seconda occhiata a “The Man Who Shot Liberty Valance” e ripensate al problema!
Possiamo sollecitare la costituzione di uno “Stato di Diritto” agli altri Paesi e, forse, dovremmo farlo.
Ma tendiamo a farlo dagli uffici di Washington D.C. e di Bruxelles, fingendo di essere sorpresi davanti ai “colpi di stato” in Mali, alle elezioni con un solo candidato in Costa d’Avorio, alla guerra civile in Libia, al governare a colpi d’arma da fuoco attraverso le savane, ai rifugiati sulle zattere nel Mediterraneo … per non parlare dei pazzi che uccidono gli insegnanti e i fedeli nelle scuole e nelle chiese francesi, o i cittadini nelle strade di Vienna.
I polacchi e gli ungheresi hanno il beneficio del ricordo di un sistema basato su uno “Stato di Diritto” così contorto e corrotto che, forse, possono essere scusati se considerano alla stregua di consigli ipocriti quelli di persone che non hanno alzato un dito per aiutarli.
Forse meritano un’udienza, piuttosto che un rimprovero.
Noi non abbiamo un interesse diretto in questo gioco, ma potremmo ascoltare e imparare una cosa o due su ciò che tiene assieme i Paesi — ho detto ciò che li tiene assieme.
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Link Originale: https://spectator.org/eu-hungary-poland-rule-of-law/
Scelto e tradotto da Franco
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