Redazione: proponiamo un’analisi della situazione nel Myanmar, indipendente ma un po’ anodina, perché glissa forzatamente sulla vera ragione del golpe, che non può essere attribuito alle sole “mire di potere” dell’esercito birmano.
Il Myanmar è sulla strada fra la Cina e l’Oceano Indiano e, quindi, è geo-politicamente indispensabile per garantire a Pechino lo sbocco su quel mare, sfuggendo almeno in parte all’accerchiamento di Washington e dei suoi alleati sul Pacifico (glissiamo sulle materie prime).
La stessa Cina, del resto, è autrice del “miracolo economico” birmano e considera il Paese facente parte della sua “sfera d’influenza”.
I rapporti di “fratellanza” di Aung San Suu Kyi con il mondo liberal statunitense non erano certo di buon auspicio per il regime di Xi Jinping, di conseguenza il quasi inevitabile “colpo di stato”.
Siamo nel post Trump, gente, e questo passa il convento.
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Thitinan Pongsudhirak per The Bangkok Post
Il 1° febbraio, quando l’esercito del Myanmar (il Tatmadaw) ha attuato l’ennesimo “colpo di stato”, ci sono state diverse reazioni dentro e fuori il Paese.
Il “colpo di stato” ha privato dei loro diritti milioni di elettori che, l’8 novembre, avevano scelto a valanga il “Consigliere di Stato” Aung San Suu Kyi e la sua “Lega Nazionale per la Democrazia” (NLD).
Non appena il “nuovo Parlamento” si è riunito, è scoppiata la rabbia della gente.
Alcuni osservatori esterni, tuttavia, sono più cauti e controllati nello spiegare agli avvenimenti.
La ragione del “colpo di stato” è oggetto di contesa e ne comprenderemo appieno gli effetti soltanto in un secondo tempo.
È comunque facile percepire la rabbia degli elettori per la presa di potere del Tatmadaw, guidato dal Generale Min Aung Hlaing.
Dopo dieci anni di libertà politica e di sviluppo economico (che hanno fatto seguito a ca. cinque anni di dittatura militare e d’isolamento economico), moltissimi cittadini del Myanmar, accomunati dalla grande speranza per le riforme, hanno esercitato un ruolo fondamentale nel processo di democratizzazione e di sviluppo economico della loro nazione, nonostante questo percorso non sia stato perfetto.
Cinque anni prima, si erano espressi quasi unanimemente per l’NLD, decimando la rappresentanza parlamentare del Tatmadaw, il cui gruppo politico è il “Partito dell’Unione della Solidarietà e dello Sviluppo”.
Le recenti elezioni hanno consegnato all’NLD una valanga di voti, superiore all’86% del 2015.
Un margine di vittoria così ampio è la più grande vittoria mai avuta in un’elezione democratica del Sud-est Asiatico.
Il fatto che gli elettori del Myanmar abbiano optato per l’NLD è dovuto al rifiuto del Tatmadaw e del passato autoritario del Paese, no di certo al sostegno per Suu Kyi e per la sua Amministrazione.
Conosciuta per essere una leader autoritaria e di scarso spessore, la sua leadership è stata criticata per la mancanza di visione d’insieme e per l’incapacità di far crescere nuove generazioni di leader.
I sostenitori internazionali di Suu Kyi sono rimasti particolarmente delusi per come ha gestito la crisi umanitaria nella regione del Rakhine, dove le operazioni di “pulizia etnica” del Tatmadaw hanno costretto alla fuga 700.000 Rohinga verso il vicino Bangladesh, dove ora conducono una squallida esistenza nei “campi profughi” di frontiera, senza alcuna certezza di tornare a casa.
Nonostante gli errori e i passi falsi di Suu Kyi, gli elettori del Myanmar le sono rimasti fedeli, pur sapendo che il suo Governo ha dato risultati insoddisfacenti e che il suo cammino sia stato lacunoso.
Dovendo scegliere fra l’NLD di Suu Kyi e il Tatmadaw, era ovvio che la scelta ricadesse sulla prima opzione.
D’altro canto, molti commentatori esterni attribuiscono le cause del “colpo di stato” all’intransigenza e all’incapacità di Suu Kyi di raggiungere compromessi e di aprirsi al dialogo.
Si pensava che il Generale Min Aung Hlaing (in pensione da luglio) fosse soddisfatto dall’accordo di condivisione del potere, che concedeva il 25% dei seggi parlamentari al Tamdaw, più una delle due cariche di Vicepresidente e tre nella gestione della “sicurezza interna ed esterna”, così come la responsabilità delle “questioni transfrontaliere”.
Forse, avrebbero dovuto nominarlo Presidente, o ritardare la “convocazione del Parlamento”, permettendo d’investigare sulle accuse di “frode elettorale” lanciate dal Tatmadaw.
Altri commentatori hanno chiesto di “non sanzionare” il Myanmar dopo il “colpo di stato”, ma di adottare un approccio più costruttivo, perché le sanzioni farebbero più male alla popolazione che alla giunta militare.
Nonostante le troppe analisi sulle ragioni del golpe, resta il fatto che il popolo del Myanmar abbia espresso democraticamente il suo rifiuto nei confronti del Tatmadaw.
È implicito nel concetto stesso di democrazia che il Tatmadaw possa, se meritevole, riconquistare terreno elettorale.
I Generali in carica avevano il controllo di tre Ministeri molto influenti, una Vicepresidenza e un quarto del Parlamento.
Era loro dovere fare meglio nell’arena elettorale.
Il fatto che abbiano perso nettamente e per ben due volte consecutive, può solo significare che il popolo del Myanmar non li vuole al potere.
Quindi, il Governo democraticamente eletto non deve arrendersi.
Deve prevalere sull’esercito utilizzando strumenti legali quali gli “emendamenti costituzionali”.
Questo è il solo modo con cui possono aver luogo le transazioni verso la democrazia nei Paesi guidati da dittature militari.
In più, la palese “sete di potere” di Min Aung Hlainga non attira simpatie al Tatmadaw né alimenta sentimenti contrari a Suu Kyi.
Subito dopo le elezioni dell’8 novembre ci sono state poche lamentele da parte dell’esercito. La sua opposizione si è irrigidita solo quando le sue richieste per ottenere più potere sono state rifiutate.
Che la rieletta Amministrazione Suu Kyi sia stata “dura” con l’esercito è più che comprensibile. Il suo mandato elettorale e la sua legittimità impongono che non si debba piegare alle richieste dei militari.
Fondamentalmente, il “colpo di stato” altro non è stato che la sfacciata sovversione della volontà del popolo del Myanmar.
Il Tatmadaw sta pagando il prezzo per aver sottostimato l’impegno del popolo a restare sui binari della democrazia.
Nonostante sia diventata un’icona per la sua gente, il ruolo di Suu Kyi dovrebbe essere di mera transizione.
All’età di 75 anni, la leader della riforma democratica del Paese dovrebbe guardare oltre sé stessa.
Suu Kyi, se l’imprevedibilità della situazione facesse risorgere la sua leadership, dovrebbe passare il testimone a un successore degno del ruolo.
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Link Originale: https://www.bangkokpost.com/opinion/opinion/2066691/whos-culpable-for-myanmars-coup
Scelto e tradotto da l’Alessandrino
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