In un angolo della memoria, ogni italiano d’una certa età conserva l’eco dell’Abissinia, di Macallé e di “Faccetta Nera” cantata da un vecchio nonno nostalgico.
Altri, invece, conoscono quel Paese solo perché ne hanno parlato i giornali, in occasione dell’attacco “woke” a Indro Montanelli: il “mee too” applicato al Medio Evo.
In ogni caso, del Corno d’Africa in Italia si parla poco.
Lo abbiamo fatto, brevemente, per la vicenda di Silvia Romano, rapita in Kenia e liberata in Somalia, grazie soprattutto ai Servizi Turchi. Fisicamente, intendo dire … dai suoi fantasmi non saprei.
E poi in occasione della scoperta di petrolio e gas nel mare davanti a Kenia e Somalia, con la Turchia che sembrerebbe abbia già preso tutto.
E ancora, in relazione alla diga GERD sul Nilo Azzurro (costruita dagli Italiani), per le tensioni mai risolte dell’Etiopia con il Sudan e, soprattutto, con l’Egitto.
Oggi ne parliamo per la Guerra del Tigrai (o Tigré, la regione di Macallé e dell’Amba Alagi).
Ovvero, per la rivolta contro il Governo Federale del Primo Ministro Abiy Ahmed, Nobel per la Pace.
Cominciata nel novembre del 2020 vede contrapposti, in estrema sintesi, il Fronte Popolare di Liberazione del Tigrai (FPLT) e il Governo Federale Etiope.
Nel settembre del 2020 lo FPLT ha chiesto al National Election Board of Ethiopia di organizzare le elezioni regionali, negate (ufficialmente) per l’epidemia di Covid.
All’ennesimo rifiuto, lo FPLT ha deciso di procedere comunque, aprendo agli osservatori internazionali.
Il Governo Federale non ne ha riconosciuto i risultati, avendo peraltro già vietato ai giornalisti stranieri di recarsi nel Tigrai per documentarle.
La situazione è precipitata quando lo FLPT è stato accusato di aver lanciato dei missili contro l’Etiopia e l’Eritrea (il Tigrai ospita gli oppositori del Governo di Asmara, la cosiddetta “Cuba del Corno d’Africa”) e così, i due Paesi, hanno invaso la regione con una manovra a tenaglia.
In questo modo, Abiy Ahmed ha dato il via a una catena di eventi che potrebbe portare alla fine stessa dell’Etiopia come Stato Unitario, con enormi conseguenze non solo per il Corno d’Africa.
La guerra, comunque, non è cominciata bene per le Forze Federali che, fin dalla prima settimana, hanno subito perdite notevoli.
Di conseguenza, dopo solo cinque giorni il Presidente Etiope ha rimosso il capo dell’Esercito, quello dei Servizi Segreti e il Ministro degli Esteri.
Il Governo Federale ha comunque sostenuto che le operazioni continueranno “fino a quando il governo locale non renderà conto delle sue azioni davanti alla legge”.
Il Primo Ministro, inoltre, ha dichiarato che “… abbiamo intrapreso una guerra inaspettata che, assolutamente, non volevamo. Questa guerra è vergognosa. Non ha alcun senso. Il popolo del Tigrai non deve morire per una guerra senza senso. E’ l’Etiopia il suo Paese”.
Ma il drammaturgo Eschilo ci aveva già avvertiti che “… in guerra, la verità è la prima vittima”. Lo è anche in questo caso.
La guerra era stata preparata da mesi e quindi non c’è davvero nulla di “inaspettato”.
Movimenti su larga scala di truppe federali dirette verso il Tigrai erano stati registrati diversi giorni prima dell’inizio delle ostilità.
La questione su “chi è che ha sparato per primo” non è un criterio utile per analizzare una guerra — la storia è piena di eventi pretestuosi utilizzati per giustificare l’inizio di un conflitto.
La vera questione cui dobbiamo rispondere è questa: quali sono gli interessi coinvolti?
Il Tigrai ha il 6% della popolazione complessiva del Paese (che conta 110 milioni di abitanti).
Nonostante sia una minoranza, negli ultimi trent’anni i politici provenienti dal quel gruppo etnico hanno sempre goduto di un potere sproporzionato nel Governo Federale.
Dopo aver combattuto contro il regime militare del DERG (il Governo Militare Provvisorio dell’Etiopia Socialista, che governò l’Etiopia e l’attuale Eritrea dal 1974 al 1987), il Fronte Popolare di Liberazione del Tigrai (TPLF) emerse come forza-guida della coalizione che nel 1991 prese il potere in Etiopia.
Il Partito dominante a livello nazionale (lo Ethiopian People’s Revolutionary Democratic Front — EPRDF — costituito dai quattro principali partiti politici dell’Etiopia, in gran parte divisi su linee etniche e geografiche) decise, per la gestione dello Stato, una forma di “federalismo etnico” che, teoricamente, dava potere alle regioni ma che, in pratica, consegnava tutti i poteri allo EPRDF, senza alcuno spazio (eufemismo) all’opposizione politica.
Conseguenza di quest’accordo, il tigrino Meles Zenawi governò l’Etiopia dal 1991 fino alla sua morte, nel 2012.
Il suo Governo coincise con un massiccio boom economico guidato dallo Stato, che permise alla classe dominante di stabilizzare per un po’ la situazione.
L’esplosiva crescita economica, tuttavia, ha costretto la popolazione a pagare un prezzo enorme: quasi tutta la ricchezza è finita nelle tasche dei ricchi residenti della capitale, Addis Abeba.
Spinta dagli investimenti cinesi, la città crebbe a dismisura a scapito delle altre regioni e delle altre etnie.
Consequenziali i disagi e le proteste che, dalle questioni pratiche, mutarono rapidamente in rivendicazioni politiche più ampie, soprattutto da parte degli Oromo e dagli Amara, primo e secondo gruppo etnico del Paese.
Queste sollevazioni indebolirono l’egemonia del tigrino TPLF e portarono Abiy Ahmed, un Oromo, a diventare Primo Ministro nel 2018.
Subito dopo, i Tigrini furono espulsi dal Governo e arrestati per corruzione e per “atti di repressione connessi alla sicurezza”, aprendo una profonda voragine fra il Tigrai e il Governo Federale, rapidamente degenerata in un lungo e violento confronto.
Come già detto, il Tigrai avrebbe dovuto tenere le elezioni quest’anno ma, con il pretesto del Covid-19, la Commissione Elettorale le ha rinviate oltre la scadenza del Governo Abiy, prevista per ottobre 2020.
Di conseguenza, la Camera Alta del Parlamento ha esteso il mandato di Abiy a tempo indeterminato, con l’opposizione a considerarlo un abuso di potere.
I Partiti degli Oromo e dei Tigrini, a quel punto, hanno proposto un accordo di unità nazionale fino alle prossime elezioni.
Ma Abiy aveva ben altro per testa: ha colto l’occasione per mettere in pratica il suo piano.
A questo punto, le spinte nazionaliste non hanno avuto più ostacoli.
Al montare delle proteste, il Governo Abiy ha rafforzato la repressione ma, quando ha trattenuto una parte del bilancio destinata al Tigrai, è diventato chiaro che un conflitto armato era ormai inevitabile.
Abiy Ahmed, il giovane Primo Ministro, è un membro estremamente ambizioso della borghesia Oromo.
La sua ottica è quella di centralizzare il potere riducendo al contempo l’autonomia dei governi regionali.
Egli considera il federalismo etnico un ostacolo che non permette al Paese di progredire — ed è pronto a calpestare ogni sentimento nazionale per raggiungere il suo scopo.
Per la borghesia di Addis Abeba, Abiy Ahmed è un riformatore. Vuole capovolgere il normale funzionamento del capitalismo etiope e, per far questo, ha bisogno che il Governo Centrale goda di un potere maggiore.
Per raggiungere l’obiettivo, ha bisogno d’indebolire i due ostacoli più potenti: il TPLF e l’opposizione Oromo (in particolare, il Fronte di Liberazione Oromo — OLF).
Abiy vuol rendere l’Etiopia il centro di potere indiscusso dell’Africa Orientale e, a questo scopo ha sospeso le ostilità contro l’Eritrea e mediato i conflitti regionali (Sudan, Sud-Sudan, Gibuti, Kenya e Somalia).
Questo gli è valso il Premio Nobel per la Pace nel 2019.
Dietro a questi eventi, ça va sans dire, ci sono gli interessi globali … in particolare, quelli della Cina e degli Stati Uniti.
Nel corso dell’ultimo decennio l’Etiopia è diventata sempre più dipendente dagli investimenti cinesi.
La Export-Import Bank of China ha messo a disposizione miliardi di dollari per il progetto ferroviario che collega l’Etiopia a Gibuti, fornendo al Paese uno sbocco sul mare.
I fondi cinesi sono stati determinanti anche per la costruzione della prima autostrada a sei corsie dell’Etiopia, di un sistema metropolitano e di diversi grattacieli che punteggiano lo skyline di Addis Abeba.
Pechino rappresenta quasi la metà del debito estero dell’Etiopia avendole prestato, fra il 2000 e il 2018, ca. 13,7 miliardi di dollari.
Ma, nel frattempo, il globalismo occidentale ha cominciato a interessarsi agli enormi profitti che si possono realizzare in quel Paese, legati anche alla privatizzazione delle società statali.
Cinicamente, il Primo Ministro Abiy è pronto a mettere la Cina contro l’Occidente, sfruttando la concorrenza per attrarre investimenti ancora maggiori e ridurre la dipendenza da Pechino.
Nel dicembre 2019, in effetti, l’Etiopia ha ricevuto un’iniezione da 9 miliardi di dollari da parte del FMI e dalla Banca Mondiale, interrompendo 15 anni di crescente dominio cinese.
In aggiunta, il Primo Ministro si è circondato di tecnocrati di cultura occidentale, diventando il manifesto di un‘”Africa moderna, piena di potenzialità economiche”.
E’ per questo che in Occidente lo stanno gratificando di riconoscimenti e prestiti a condizioni favorevoli.
Le riforme stanno creando importanti opportunità per le imprese occidentali, ma stanno anche alterando le relazioni dell’Etiopia con la Cina.
In una conferenza tenuta ad Addis Abeba, Abiy è arrivato a dire che i termini dei prestiti cinesi avevano danneggiato l’economia etiope:
“Alcuni dicono che stiamo aggiungendo più debito al già alto debito del Paese. Ma prendere in prestito dall’FMI e dalla Banca Mondiale è come farlo dalla propria madre.
Ciò che danneggia l’Etiopia è il prestito concesso da altre società o da altri Paesi.
Ad esempio, l’Etiopia ha avuto accesso a un prestito per costruire una ferrovia [dalla Cina], ma poi le è stato chiesto di restituirlo prima del completamento dell’opera“.
Le aziende europee e americane si son già messe in fila testimoniando il loro grande interesse, che si aggiunge a quello della Cina, degli Stati del Golfo e della Russia, che in questi anni hanno manovrato per influenzare l’Etiopia, attratti dalla sua crescita economica.
La strategia perseguita da Abiy, quella di mettere Pechino e l’Occidente l’uno contro l’altro, ha tuttavia raggiunto il suo limite.
In effetti, le relazioni fra Stati Uniti ed Etiopia avevano preso una brutta piega quando l’Amministrazione Trump era intervenuta a riguardo del riempimento della diga Grand Renaissance sul fiume Nilo.
E’ un progetto vitale nei piani di Abiy, ma Trump voleva spingere l’Etiopia ad accettare una soluzione negoziata con l’Egitto.
Allo stesso modo, negli ultimi anni Pechino ha cominciato a ridurre i prestiti all’Etiopia e, quindi, Abiy sta avvertendo chiaramente di essere finito in un angolo.
L’economia era già in declino prima del Covid-19 ma, ora, l’Etiopia deve affrontare una crisi economica e sociale davvero importante.
L’operazione militare nel Tigrai è quindi una scommessa disperata, nel tentativo di accentrare il potere politico per realizzare i suoi piani.
Ma una lunga guerra avrebbe l’effetto opposto.
Una delle eventualità più probabili è che l’esercito si divida secondo linee etniche, con gli ufficiali del Tigrai che disertano e si uniscono alle Forze della propria regione. Ci sono segni che questo stia già accadendo.
Inoltre, comunque finisca la guerra, lo scontro fra il Presidente Abiy e il TPLF avrà profonde ripercussioni.
L’ONU ha avvertito che una grave crisi umanitaria potrebbe creare ben 9 milioni di profughi, che si riverserebbero per i decenni a venire in tutta l’Etiopia e nel Corno d’Africa — ma aggiungerei anche in Europa, attraverso l’Italia.
Nel frattempo, il 26 agosto si è tenuto un Consiglio di Sicurezza dell’Onu, in relazione alla Guerra del Tigrai.
Stati Uniti ed Europa hanno cercato di far passare un qualche tipo di risoluzione che censuri l’Etiopia e che porti a un intervento di peace-keeping, ma finora non ci sono riusciti perché Cina e Russia si sono opposti, sostenendo che si tratti di un affare interno dell’Etiopia.
Insomma, tutti ripetono stancamente quello che hanno sempre detto.
L’Unione Africana, a sua volta, sta per nominare l’ex Presidente della Nigeria, Olusegun Obasanjo, come Alto Rappresentante per il Corno d’Africa, per tentare una sorta di mediazione.
Ma cosa potrà ottenere? Non molto, secondo me, ma staremo a vedere.
In conclusione, e con tutte le riserve di questo mondo, l’Occidente vuol ridurre il potere del Presidente Etiope, ritenuto doppiogiochista e inaffidabile.
In questo senso, sta spingendo perché il Governo Federale riconosca le elezioni regionali del Tigrai, accogliendo suoi esponenti in un nuovo Governo di Coalizione.
Cina e Russia, a loro volta, non sembrano avere le idee chiarissime. Anche loro sono indispettite da Abiy Ahmed. Lo hanno sostenuto al Consiglio di Sicurezza per inerzia, senza alcun entusiasmo. Forse, come male minore.
Come andrà a finire? Nessuno lo sa (vista anche la paralisi dell’Amministrazione Biden) ma, fossi nei panni del Governo Italiano, fra una Green Card e l’altra andrei a vedere cosa sta succedendo in Etiopia. Lampedusa si trova in Italia.
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Franco