Aaron Hirschi per American Thinker
Dopo anni in cui si è fatto finta che il Partito Comunista Cinese (PCC) fosse impermeabile alle forze di mercato, c’è una seria possibilità che possa arrivare il suo “momento Lehman” — una grande bancarotta finanziaria che potrebbe innescare una cascata d’inadempienze e un duro atterraggio economico.
Se il gigante dell’immobiliare Evergrande facesse default sul suo debito (pari a 300 miliardi di dollari), ci sarebbe una possibilità reale che la Cina sperimenti la sua prima grave recessione in oltre trent’anni.
Tutto questo, dopo che la cattiva gestione del PCC ha causato una pandemia a livello mondiale, che ha pesantemente intaccato la sua credibilità politica.
Quindi, quali sono le opzioni a disposizione del PCC? E poi, quale impatto avrà questa crisi sulle ambizioni di Xi Jinping?
Per un’analisi realistica è necessario comprendere la posizione attuale del PCC e valutare in che modo i precedenti disastri economici abbiano avuto un impatto sugli “stati totalitari”.
Nonostante alcune proiezioni contrarie, è improbabile che una singola grande “battuta d’arresto economica” possa sloggiare il PCC dal potere.
Le crisi in Venezuela, Cuba, Iran e persino nella Cina maoista dimostrano che le dittature sono molto resistenti al tentativo di essere rovesciate dall’interno.
La considerazione successiva è riconoscere che la reale motivazione del PCC non sia la ricchezza e la prosperità della Cina, ma l’acquisizione di ricchezza e potere per il Partito stesso.
Solo dopo aver accettato che il PCC stia usando la Cina come strumento di potere si potrà capire com’è che quel Partito probabilmente reagirà sulla scia di un grande shock economico.
Dall’epoca di Deng Xiaoping, il PCC è diventato più flessibile sia nell’ideologia che nella gestione del potere … ma per rafforzare il suo controllo, non per liberalizzare il Paese.
Una vera liberalizzazione porterebbe alla Cina benefici reali, ma a spese del potere del PCC — il che è intollerabile per la cerchia interna del Partito.
Basti pensare al “massacro di piazza Tienanmen” nel 1989. Le manifestazioni studentesche spaventarono a tal punto il regime da fermare tutte le riforme politiche che erano cominciate nei primi anni ’80 — e, da quel momento, non sono mai più riprese.
Questo significa che è più probabile che il PCC preferisca governare una Cina più debole (e con un ridotto status globale) piuttosto che riformare l’economia cinese a scapito del potere del Partito.
La frase spesso citata di John Milton “Meglio regnare all’inferno che servire in paradiso” è il motto perfetto per il Comitato Permanente del Politburo.
Quindi, cosa potrebbe accadere, in Cina, se Evergrande innescasse una cascata di default, generando una crisi in stile 2008?
Il PCC ha già dato alcune indicazioni ancor prima delle rivelazioni sulla Evergrande.
In primo luogo, il Presidente Xi Jinping ha annunciato nuove restrizioni per l’”istruzione privata” in nome della “ridistribuzione della ricchezza” (sic), che è un modo elegante per giustificarne la statalizzazione.
Poi, Xi ha denunciato l’eccesso di profitti e il comportamento disonesto nei settori della tecnologia e dell’informatica, imponendo maggiori controlli statali, con il pretesto di creare più equità sociale.
Xi si è poi concentrato sul controllo delle attività dei social-media — come ad esempio i videogiochi — e sulla rappresentazione sociale nella loro gestione.
Tutto questo per imporre un maggior controllo statale su quei settori-chiave che potrebbero minacciare la presa del PCC sulla Cina.
Le recenti azioni di Xi Jinping sembrano indicare che il PCC già da tempo fosse consapevole delle grandi difficoltà finanziarie all’interno del mercato immobiliare cinese — e che c’era un serio rischio che il Partito non potesse contenere il danno finanziario.
Il PCC ha preso di mira, in particolare, tutta l’industria dell’informazione. Ma, se questo è vero, dobbiamo concludere che il Partito stia facendo la scelta standard di tutti i regimi totalitari, piuttosto che rischiare di perdere potere politico attraverso le riforme economiche.
L’analisi dei precedenti (in tutto il mondo) indica che il PCC stringerà le redini per assicurarsi che un disastro economico non comporti particolari ripercussioni politiche.
Alcuni potrebbero credere che il PCC non salverà Evergrande per permettere al mercato immobiliare di autocorreggersi e ridurre il divario di ricchezza nel Paese.
Tuttavia, altri osservatori decisamente più realisti credono che la priorità recentemente dichiarata dal PCC di voler “ridistribuire la ricchezza” non sia altro che l’ennesima scusa per convincere i cinesi che di questa crisi economica il Partito non sia “la causa”, ma “il salvatore”.
Di conseguenza, il PCC darà tutta la colpa al settore privato aumentando al contempo il controllo statale.
Le recenti azioni del PCC mostrano chiaramente che è disposto a tornare alle vecchie politiche dell’era maoista — un’economia più diretta e indottrinata — pur di proteggere il Partito dall’insurrezione.
Se questo accadesse, potremmo concludere che difficilmente queste politiche saranno cancellate, anche dopo la fine di questa crisi.
Molti dimenticano che l’amore di Xi Jinping per l’interferenza statale nell’economia è molto antica — risale ai tempi suo primo mandato come Segretario Generale.
Durante quel periodo, Xi diede vita a una serie di riforme per galvanizzare le imprese statali e aumentare l’indottrinamento ideologico nella vita quotidiana.
Quindi, cos’è che spaventa a tal punto il PCC — e specialmente Xi — da renderlo disponibile a paralizzare finanche la crescita economica (alla base delle ambizioni globali della Cina), soffocando l’innovazione attraverso un maggiore controllo statale?
La chiave sta nel concetto culturale cinese della perdita della “dignità pubblica”, ovvero della “faccia”.
Il PCC deve mantenere a tutti i costi la “dignità pubblica” se vuole conservare la sua “legittimità politica”.
Le azioni che mettono in imbarazzo il Partito (e i suoi membri) rischiano, in effetti, di far perdere autorità agli occhi dei sudditi.
Di conseguenza, quando prende decisioni, il PCC deve considerare non solo le questioni pratiche, di carattere fiscale, ma anche tener conto delle aspettative sociali.
Aspettative che sono andate deluse. Per quanto possano dire l’apparato di propaganda statale e i suoi collaboratori occidentali, il PCC ha perso la faccia e la reputazione interna dopo il disastro del Covid a Wuhan.
Che sia stato o meno un incidente, il PCC ha dimostrato una notevole incompetenza quando il contagio si è diffuso oltre i confini provinciali e nazionali.
Un disastro economico a solo un anno dal disastro sanitario potrebbe potenzialmente paralizzare il PCC. E, un Partito paralizzato, sarebbe vulnerabile a una rivolta.
Quindi, il PCC farà di tutto per prevenire questa possibilità, anche se ciò significasse la fine del miracolo economico globalista, quello della crescita continua.
L’ultima complicazione, nei calcoli del PCC, è la rivalità fra le fazioni interne al Partito.
Le macchinazioni all’interno del PCC sono tenute ben nascoste ma sappiamo che almeno una di queste, quella guidata dall’ex leader Jiang Zemin, vuole deporre Xi Jinping.
I ripetuti disastri espongono Xi a reazioni politiche e, quindi, un controllo maggiore lo aiuterebbe a prevenire le manovre dei rivali.
Alla luce di tutte queste considerazioni, il PCC tornerà probabilmente a politiche di stampo maoista — piuttosto che avviare riforme — per preservare il suo potere.
Per i suoi membri, il Partito è più importante della Cina e dei cinesi.
Il PCC molto probabilmente sopravviverà a queste turbolenze, ma il Governo di Xi Jinping e le ambizioni globali della Cina potrebbero anche aver fine se il Partito sbagliasse i suoi calcoli.
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Scelto e tradotto da Franco
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