Kit Knightly per Off Guardian (sintesi)
Lunedì scorso Facebook ha subito una massiccia interruzione. Allo stesso tempo, una “whistleblower” di alto profilo si è fatta avanti per raccontare tutta la sporcizia di questo social-media.
Queste due cose si sono combinate fra loro creando una tempesta perfetta, che ritrae l’azienda di Mark Zuckerberg come un mostro da abbattere attraverso un abile intervento del Governo.
Ma questa storia è davvero reale? E perché Facebook la sta assecondando? E cosa significa per il resto di Internet?
Cos’è successo?
Per diverse ore, lunedì pomeriggio, Facebook e le sue filiali Instagram e Whatsapp sono state completamente off-line.
Sono circolate voci secondo cui gran parte dei contenuti del gigante dei social-media sarebbe stata cancellata. Altre, invece, sostenevano che si trattasse di un attacco informatico.
Facebook insiste nel dire che non ci sia stato alcun attacco e che tutto sia riconducibile a un semplice errore tecnico — ma, ovviamente, nessuna azienda tecnologica ammetterebbe di essere vulnerabile a un attacco.
Comunque, c’è sempre la possibilità che quest’evento possa essere stato semplicemente inscenato (e, in ogni caso, la tempistica è davvero sospetta).
Perché lo avrebbe fatto?
Per settimane un anonimo “whistleblower” aveva “passato” documenti al Wall Street Journal, per dimostrare che Facebook utilizza sistematicamente pratiche commerciali altamente immorali.
La divulgatrice dei cosiddetti “Facebook Files” ha finalmente rivelato la sua vera identità domenica scorsa, nel corso di un’intervista: si tratta di Frances Haugen, una scienziata informatica.
Il massiccio off-line di Facebook c’è stato lunedì mentre, la programmata testimonianza davanti al Congresso della signora Haugen, ha avuto luogo la mattina seguente, martedì.
Fosse tutto una coincidenza, Facebook avrebbe battuto ogni record di sfortuna.
Quindi, cosa ha detto la Whistleblower?
Nella lunga testimonianza di martedì la Haugen ha fatto a pezzi l’azienda. L’ha accusata di tutto, dall’essere un pericolo per la salute mentale dei bambini fino a vere e proprie violazioni di Legge.
Nella sua intervista ha detto al giornalista che “… ancora e come sempre Facebook ha scelto il profitto invece della sicurezza”.
Dai “cartelli della droga” ai “discorsi di odio”, dal genocidio all’anoressia … non c’è niente di cui la Haugen non abbia dato colpa a Facebook.
Facebook è un mostro?
Per prima cosa, dovremmo sempre essere scettici di fronte a qualsiasi narrazione pianificata e lanciata così meticolosamente.
Un “informatore anonimo” che si fa avanti con un team di avvocati e interviste coordinate in prima serata TV, poco prima della sua testimonianza al Congresso, assomiglia un po’ troppo a una sfarzosa campagna di Pubbliche Relazioni o alla promozione di un nuovo film.
Inoltre, considerate di cosa Facebook viene effettivamente accusata.
Non sono la sorveglianza di massa, la censura e l’abuso del suo monopolio che stanno facendo notizia, ma il fatto che sia troppo tollerante in quello che permette di dire e vedere.
Facebook, in effetti, “permette i discorsi d’odio”, “non controlla efficacemente la disinformazione sui vaccini” e “danneggia la democrazia”.
Ma, questi, sono punti di discussione progettati appositamente per soffocare il dibattito e mettere sotto controllo la conversazione.
Sì, molte persone odiano Facebook — e per ottime ragioni.
Ma quest’odio, ora, viene deliberatamente coltivato, perché la gente faccia il tifo per la sua regolamentazione — senza rendersi conto che sarebbero le altre aziende, quelle più piccole, ad essere più duramente colpite da qualsiasi nuova “regola standard per Internet”.
Come molte altre testimonianze del passato davanti al Congresso, anche questa sembra falsa e, probabilmente, lo è.
Un esercizio gestito a tavolino che coinvolge un qualche “testimone esperto”, che racconta ai politici esattamente quello che vogliono sentirsi dire, per aiutarli a spingere la Legge che avrebbero comunque approvato.
Tutto questo sta portando a forti iniziative bipartisan volte a “regolamentare” il settore — e questa non è una buona cosa.
Perché non lo è?
Lasciatemi rispondere a questa domanda ponendone un paio a mia volta: a) pensate che la conversazione politica su Facebook sia tutt’ora troppo controllata?; b) pensate che migliorerebbe se diventasse oggetto della supervisione del Governo?
Certo che no, “regolando” Facebook si finirebbe con il sopprimere quel po’ di libertà che ancora resta su quella piattaforma, schiacciandola completamente.
E non si tratterebbe solo di questo social-media. Il caso verrebbe usato come pretesto per perseguire le piattaforme più piccole e meno controllate.
Inoltre, c’è una buona possibilità che Facebook stia attivamente partecipando al gioco e che stia perseguendo volontariamente questa narrazione.
Basta controllare quello che la sua portavoce (Lena Pietsch) ha detto martedì:
“Oggi, al Senato, una Sottocommissione per il Commercio ha tenuto un’udienza con una ex product-manager di Facebook.
Costei ha lavorato per l’azienda per meno di due anni, non ha mai avuto rapporti diretti con i vertici, non ha mai partecipato finanche a riunioni decisionali con dirigenti di ‘livello C’ e, inoltre, ha testimoniato più di sei volte di non aver mai lavorato sulla materia in questione.
Non siamo d’accordo con la caratterizzazione che ha fatto delle tante questioni su cui ha testimoniato.
Tuttavia, su una cosa siamo d’accordo: è ora di cominciare a creare regole standard per Internet.
Sono passati 25 anni da quando queste regole furono aggiornate ed è tempo che il Congresso agisca, invece di aspettare che sia l’industria a prendere decisioni sociali che appartengono, invece, ai Legislatori”.
Nonostante il discredito e il disaccordo con tutto ciò che ha detto la “whistleblower”, Facebook ammette che il Congresso debba “agire” e produrre “regole standard per Internet”.
Per quale ragione l’ha fatto?
Facebook, in effetti, sta chiaramente allineandosi con chi vuole una regolamentazione più severa del web.
Come sarà, allora, questa nuova “regolamentazione”?
Bè, questa è la domanda più difficile a cui rispondere.
Visto che il problema è stato appena presentato, i media sono ancora nella prima fase della reazione (si veda questo pezzo del Guardian). Si parla di “soluzioni”, ma in termini molto vaghi.
Un articolo su MSNBC titola “Facebook, Instagram e WhatsApp sono di nuovo attivi. Ma la loro interruzione è un’opportunità” e fa eco alla signora Pietsch, quasi parola per parola.
I Regolatori dovrebbero fare meglio, ma anche il Congresso dovrebbe agire. Il pezzo si conclude con il link a un articolo di questo maggio su Politico, che chiede un “Internet pubblico”.
Un “Internet pubblico” significa, essenzialmente, spezzare il monopolio delle grandi aziende tecnologiche e finanziare pubblicamente piattaforme “guidate dalla comunità”, che si concentrano sulle questioni più tipicamente locali.
O, più cinicamente, si deve “compartimentare internet” per limitare il campo della potenziale comunicazione.
Lo scopo di questo “internet pubblico” sarebbe di “rimetterci insieme” e di “rimuovere l’odio”. Tuttavia, questo significherebbe impedire qualsiasi dissenso.
“Internet pubblico” potrebbe essere l’obiettivo di lungo termine ma, per il momento, è solo il feto di un’idea.
Per idee più immediate sulla “regolamentazione”, possiamo tornare alla signora Haugen che, dopo aver acutamente definito il problema, ha raccomandato con entusiasmo alcune soluzioni.
Queste includono (ma non si limitano a …) un nuovo “supervisore indipendente” per Facebook (forse una nuova Agenzia Governativa) e la “riforma dell’articolo 230”.
L’articolo 230 dice che le “piattaforme di social-media” non hanno responsabilità per i contenuti creati dai loro utenti. “Riformarlo” potrebbe aprire le aziende di social-media a innumerevoli cause.
In effetti, alcune Organizzazioni Politiche hanno sostenuto che “eliminare questa Legge potrebbe rafforzare i giganti tecnologici in carica perché renderebbe più difficile, per le ‘piattaforme di social-media’ più piccole (e quindi con meno risorse per moderare i contenuti), poter operare senza affrontare costose cause legali”.
Così, almeno una delle soluzioni proposte dalla signora Haugen sarebbe potenzialmente vantaggiosa per Facebook mentre, quasi certamente, paralizzerebbe i loro concorrenti più piccoli.
Divertente.
Conclusione
Fin dalla sua nascita, Internet è stato un selvaggio far-west digitale e, nonostante i numerosi tentativi di prenderne il controllo, resta un luogo di relativa libertà.
Facebook, Google, Amazon e i loro simili sono dei mostri aziendali, senza alcun dubbio.
Ma dobbiamo prestare molta attenzione quando applaudiamo alle richieste per regolarle o frammentarle. Soprattutto quando le stesse aziende collaborano attivamente.
Il più delle volte le “regolamentazioni” non sono rivolte ai giganti aziendali, che hanno le connessioni e le risorse per sopravvivere, ma ai loro concorrenti più piccoli.
In questo modo, viene assicurato il monopolio di un pugno di imprese gigantesche e si accentra ulteriormente il potere dello Stato.
Ricordate che i giganti aziendali e il Deep State non sono in opposizione l’un contro l’altro. Lavorano insieme nel reciproco interesse.
Teoricamente, Facebook potrebbe anche essere nel mirino dei media. Ma in pratica non è così. Quella cui stiamo assistendo è solo una pantomima.
I veri obiettivi sono le piattaforme alternative — come Telegram, Gab e Parler — o gli outlet indipendenti che non sono ancora nati.
Più in generale, quella cui stiamo assistendo è parte di una campagna volta contro la capacità di milioni di persone di comunicare liberamente fra di loro — perché è questa la vera minaccia sia al potere dello Stato che all’avidità dei monoliti aziendali.
Quindi, quando si tratta di “Big Government” e di “Big Five Tech”, non credete a una sola parola di quello che vi viene detto.
Fra di loro si piacciono davvero molto. In compenso, odiano voi.
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Scelto e tradotto da Franco