“Chi dice di essere nella luce e odia suo fratello, è ancora nelle tenebre”
Giovanni 2:3-11
L’artista è una sorta di scienziato dell’anima. Come non possiamo avere una fede cieca nell’arte, così non possiamo avere fede cieca nella scienza. Chi può impormi qualcosa in nome dell’arte? Potete immaginare un governo che va avanti a decreti legge perché lo dice l’arte?
L’artista allo stesso modo dello scienziato si interroga sulla realtà delle cose, sulla natura dell’essere umano e del cosmo che lo circonda. E da dove parte? Dall’osservazione della vita. Le sue opere sono un laboratorio nel quale elementi umani (e non) si confrontano in un ambiente asettico.
Gli scrittori del secolo scorso ci hanno descritto dettagliatamente la natura degli esseri umani che vivevano nel tempo in cui questi artisti operavano.
Come dicevo prima abbiamo esperimenti su carta nei quali ci vengono descritti determinati tipi psicologici che vengono inseriti in un determinato e preciso ambiente sociale. Salta immediatamente all’occhio una figura tra le tante, che ora sembra aver preso il sopravvento nella società Occidentale odierna, un personaggio che attraversa obliquamente la vasta produzione letteraria del secolo scorso: l’inetto. Essa splende nel grimorio della letteratura europea, sembra quasi un’ossessione, una brama, un delirio. Eppure, questi grandi pensatori hanno delineato in modo limpido una via verso la quale l’Occidente avrebbe potuto dirigersi. Come l’hanno fatto? Raccontando.
Non notiamo forse tutti i giorni uscendo di casa questo figuro, che, fino al 2019, poteva nascondersi tra le grinze di una società decadente e ridicolmente messianica? Non si è in questi ultimi due anni reso riconoscibile attraverso mascherine, igienizzanti e distanziamenti vari? Non è stato eletto a modello sociale da una classe politica serva di un sistema che desidera ardentemente un mondo di inadeguati e di miserabili?
Non siamo in un labirinto ora visibile in tutto e per tutto, fatto di pezzi di carne che deambulano, che respirano e che attendono? Un essere umano degenerato, incastrato nella morsa plastica della materia, tra la glassa fittizia di emozioni tuonanti e percezioni illusorie in un teatro di sconfinato dramma.
Non si parla più di Dio. Non si sa nemmeno più se ci sia un Dio. Un essere umano che, ha spezzato il cordone ombelicale con il suo centro, vaga, anemico e igienizzato, ipercapnico e ostile, per le contrade di un mondo feroce, incapace di riconoscere il volto dei suoi fratelli e delle sue sorelle, incapace di amare e di sorridere, furente nel suo istinto di sopravvivenza, questo essere umano che produce paura su richiesta e che non capisce che la masturbazione da terrore prima o poi rende ciechi.
Un essere umano che vive nel fango di un dualismo aforistico, fatto di parole pronunciate da una scatola, la cui potenza e la cui precisione chirurgica li farà finire di sicuro in un’altra scatola, che però non sta in salotto, ma viene posta sotto una terra fredda e indifferente.
Mi piacerebbe umilmente e senza pretese provare a trovare negli scrittori a me cari alcune delle caratteristiche che tutti i giorni vediamo.
Dostoevsky, guida dei labirinti psichici dei diseredati del mondo, descrive il percorso dei pensieri che affliggono le masse. L’uomo descritto dal grande scrittore russo è un derelitto dilaniato da emozioni contrastanti che si riflettono in azioni apparentemente contraddittorie e senza senso.
Kafka getta l’essere umano in un carcere burocratico, fatto di regole assurde e di vuoti salamecchi, un mondo di specchi irregolari e vivaci vicoli ciechi, nei quali l’autorità è un punto remoto in un cosmo ubriaco di formalità e di norme. L’autorità è arrogante e sicura della sua posizione inoppugnabile. Non è lei che deve ascoltare le istanze dei cittadini. Lei vive di dinamiche proprie. L’essere umano sembra essere un’eccezione da schiacciare nell’indifferenza generale e nell’ignavia più frustrante.
Svevo, iperrealista della carta scritta, dirige il suo inetto su un palcoscenico di insoddisfazioni e ossimori. Il rimedio all’inettitudine altro non è che l’inettitudine. Un uomo che gira come un criceto sulla sua ruota e nuota in un mare di ossessioni.
Camus nel suo unicum letterario “Lo straniero” esalta tutta l’indifferenza, fino a farla diventare motivo di orgoglio, dell’uomo contemporaneo che nemmeno davanti al crimine riesce a provare qualcosa.
Moravia ha dedicato l’intera carriera letteraria nella descrizione di questo essere piccolo e incapace.
Beckett mutila i suoi personaggi, li rende balbuzienti, menomati, disgustosi, inconsapevoli pedine di un universo indecifrabile e furente che li soverchia e li rende succubi. “Fuori è la fine del mondo” dice con terrore uno dei suoi personaggi paralitici, quando parla di ciò che sta al di fuori dell’involucro in cui è contenuto nel suo dramma “Finale di partita”.
Musil addirittura vi ha intitolato il suo capolavoro: “L’uomo senza qualità”.
Di che cosa ci stupiamo allora? Di che cosa ci disperiamo allora? Oggi vediamo l’apoteosi di questa inettitudine, un uomo che vive in universo per lui incomprensibile, inavvicinabile.. potremmo addirittura tornare indietro al grande Moliere “Il malato immaginario”.. il malato immaginario di oggi vive tra la casa, il bar e la farmacia. Ogni mattina tra un caffè, un green pass e una ricetta medica milioni di persone tessono le loro piccole sicurezze e le loro gioie, in un sistema granitico e univoco, dove non esiste interferenza alcuna.
Accanto a questa controfigura fraintesa per protagonista assoluto del dramma sociale si fa strada un germoglio, un clandestino, un randagio, un reietto, un folle. Nel dramma entra in scena chi non dovrebbe esserci: l’indesiderato.
Una sorta di Mercuzio, di Falstaff, o forse un Amleto contemporaneo. Questa tipologia di uomo rappresenta quel contrappasso che Dante ci ha mostrato nella sua Commedia.
Forse il seme di cui parlava Gesù?
In questo fenotipo si nota un’urgenza per un destino differente da quello che gli viene proposto con un’insistenza assillante. Sembra inoltre possedere un alto grado di sopportazione. Sembra trarre forza dalla sventura, piuttosto che abbandonarsi a essa.
Perché da così fastidio? La sua immunità alle minacce.
Tra questi divergenti possiamo trovare i dirigenti del futuro. Nei loro consessi le loro idee scalpitano per essere liberate nella prateria del domani.
Queste persone che non riescono ad allinearsi ai dettami istituzionali e non credono nella scienza, saranno i guardiani del mondo del futuro,
Perché dico questo? Perché queste persone non hanno ceduto. E l’atto di non cedere le ha cambiate, irreversibilmente. Le ha rese consapevoli di qualcosa che prima non riuscivano a comprendere. Molti hanno capito di avere una missione da compiere. Molti in questi due anni hanno ricevuto una chiamata. E attorno a questa chiamata hanno costruito progetti.
Molti hanno letto per la prima volta la Costituzione in questi ultimi due anni e si sono resi conto di cosa volesse dire libertà. Hanno conosciuto il significato di questa parola nel momento in cui la libertà è venuta a mancare.
E se ne sono accorti perché un disagio enorme è esploso dentro di loro e non lo ha più abbandonati. Un senso di giustizia ha plasmato i loro pensieri e hanno sognato una società nuova, luminosa, trasparente. Sono riusciti a vederla. Sono riusciti a immaginarla in ogni suo dettaglio.
La loro intelligenza è cresciuta notevolmente, anche a causa di tutte le restrizioni e per la prima volta si sono trovati a pensare a come riuscire non solo a eludere i divieti, ma anche a come sopravvivere. Questo, ripeto, ha acuito molte menti, che si sono raffinate.
Il potere vigente ha sì appiattito molti, ma ha reso alcuni estremamente sensibili e intelligenti e consapevoli.
Questo gruppo, anche una volta finita l’emergenza, non lascerà le posizioni che ha conquistato con fatica. Questo gruppo è nato per restare. La società civile ha già partorito la classe dirigente che donerà al Paese.
E’ in atto una speciazione. E’ in atto un processo che non possiamo fermare e nemmeno vorremo farlo. Due umanità stanno nascendo. Due rami ben diversi si stanno sviluppando dalla stessa corteccia.
Questo non significa affatto che non possano convivere. Tutt’altro, la sfida del futuro sarà conciliare due visioni del mondo totalmente differenti in un’unica società, senza forzare nessuno a credere in qualcosa che non capisce. Forse in una convivenza armoniosa tra istanze nettamente diverse giace la vera sfida di un futuro che ora ci appare incerto, ma di cui non dobbiamo avere paura.
Non è forse questa la democrazia?
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