Franco per mittdolcino.com
“Lo Scudo Crociato torna unito. Nasce il Partito del Popolo Italiano”, così titolava ieri Affaritaliani.
E così ha continuato: “La cerimonia di riunificazione dei Partiti Democristiani si celebra a 26 anni dalla trasformazione della Dc in Partito Popolare e, non a caso, è stata aperta da un video del fondatore Mino Martinazzoli, una gag sulla pretesa di un giovane manager di riformare l’incompiuta di Schubert”.
Non so se l’esperienza democristiana, in senso stretto, possa essere ripetuta.
Non può senz’altro essere ripetuta l’alleanza con le forze socialiste (assieme, e fino a quando godettero di una sufficiente autonomia, portarono l’Italia al 4° posto nel mondo per produzione industriale).
Non può essere ripetuta per un motivo quasi banale nella sua semplicità: il socialismo in Italia non c’è più. Ora ci sono “socialisti di nome”, ma “liberisti ed eurofili di fatto”.
Non può essere questa la sede per un’analisi efficace. Ma mi preme parlare di un evento che i giovani probabilmente non conoscono, anche se fu alla base della nostra civiltà e dello sviluppo della nostra economia nel dopoguerra.
Mi riferisco al movimento cattolico-sociale che si dipanò attraverso l’“Unione Internazionale di Studi Sociali” di Malines (Belgio), la cui estensione italiana passa sotto il nome di “Codice di Camaldoli”.
Per uno studio attento e puntuale rimando all’ottimo saggio del compianto Giovanni Cilli, che può essere trovato nell’archivio di Movisol a questo link: https://archive.movisol.org/ulse261.htm
Quello che segue vuole essere solo una sintesi estrema, ottenuta saccheggiando la blogosfera.
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Il “Codice di Camaldoli” è un documento programmatico di politica economica stilato nel luglio del 1943 da esponenti delle forze cattoliche italiane.
Funse da ispirazione e linea guida per la politica economica della Democrazia Cristiana, Partito che dopo la “Seconda Guerra Mondiale” fu per diverse legislature il maggior Partito di Governo.
I PARTECIPANTI
Il documento fu elaborato al termine di una settimana di studio tenutasi dal 18 al 23 Luglio del 1943 nel Monastero di Camaldoli, nel Casentino.
Vi parteciparono circa cinquanta giovani dell’Azione Cattolica Italiana e dell’”Istituto Cattolico di Attività Sociale”.
I lavori furono coordinati da Adriano Bernareggi, vescovo di Bergamo ed assistente ecclesiastico dei laureati dell’Azione Cattolica. I principi-guida furono elaborati da Sergio Paronetto, Pasquale Saraceno ed Ezio Vanoni.
Alla stesura definitiva del Codice parteciparono Mario Ferrari Aggradi, Paolo Emilio Taviani, Guido Gonella, Giuseppe Capograssi, Ferruccio Pergolesi, Vittore Branca, Giorgio La Pira, Aldo Moro, Giulio Andreotti, Giuseppe Medici.
Fu infine presentato da Pietro Pavan, incaricato di pronunciarne le considerazioni conclusive.
LE PREMESSE ED IL CONTESTO
Il Codice di Camaldoli fu pensato sul modello del “Codice di Malines”, primo tentativo di “dottrina sociale cattolica”, elaborato nel 1927.
Il documento camaldolese voleva esserne il seguito, ideale e temporale.
Rappresentava un tentativo per codificare alcuni principi fondamentali della politica economica del mondo cattolico, nell’Europa del Novecento.
Secondo Norberto Bobbio, il Codice di Malines fu, con le encicliche Rerum novarum (papa Leone XIII, 1891) e Quadragesimo anno (papa Pio XI, 1931), il testo fondamentale della dottrina del Cristianesimo Sociale.
CONTENUTO DEL DOCUMENTO
Al termine della settimana di “ritiro” furono concordati alcuni principi, successivamente articolati in 76 enunciati, conosciuti come “Codice di Camaldoli”.
Fra gli enunciati vi è la definizione della funzione dello Stato:
“Fine dello Stato è la promozione del bene comune, a cui possono partecipare tutti i cittadini in rispondenza alle loro attitudini e condizioni […] Lo Stato non deve sostituirsi al cittadino nel perseguimento del proprio bene, ma deve sempre essere presente una direttiva generale di giustizia sociale, quali la protezione e l’elevazione delle classi meno dotate salvi, ben inteso, i rapporti di giustizia distributiva e commutativa“.
Viene dagli Atti degli Apostoli un monito circa la possibile legittimazione, in taluni casi, della disobbedienza civile:
“Qualora lo Stato emani una legge ingiusta i sudditi non sono tenuti ad obbedire. [ ….. ] Se l’oggetto della legge è immorale, cioè lede la dignità umana o è in aperto confitto con la legge di Dio, ciascuno è obbligato in coscienza a non obbedire“.
Circa la vita economica dello stato, dopo aver statuito che ”Per ordinare la vita economica è necessario che si aggiunga alla ‘legge della giustizia’ la ‘legge della carità’”, il codice elenca 8 principi morali cui si deve informare l’attività della vita economica:
- la dignità della persona umana, che esige una ben ordinata libertà del singolo, anche in campo economico;
- l’eguaglianza dei diritti di carattere personale, nonostante le profonde differenze individuali, provenienti dal diverso grado di intelligenza, di abilità, di forze fisiche, etc.;
- la solidarietà, cioè il dovere della collaborazione anche in campo economico per il raggiungimento del fine comune della società;
- la destinazione primaria dei beni materiali a vantaggio di tutti gli uomini;
- la possibilità di appropriazione [da intendere come possibilità di acquisire beni materiali] nei diversi modi legittimi, fra i quali è preminente il [reddito da] lavoro;
- il libero commercio dei beni nel rispetto della giustizia commutativa:
- il rispetto delle esigenze della giustizia commutativa nella remunerazione del lavoro;
- il rispetto dell’esigenza della giustizia distributiva e legale nell’intervento dello Stato.
Sul dovere di solidarietà, il Codice prescrive che:
“Finché nella società ci sono dei membri che mancano del necessario, è dovere fondamentale della società provvedere, sia con la carità privata che con le istituzioni di carità private, sia con altri mezzi, compresa la limitazione della proprietà dei beni non necessari nella misura occorrente a provvedere al bisogno degli indigenti“.
E sul punto della distribuzione patrimoniale sancisce che:
“Un buon sistema economico deve evitare l’arricchimento eccessivo che rechi danno ad un’equa distribuzione — e in ogni caso deve impedire che attraverso il controllo sui concentramenti di ricchezza si verifichi lo strapotere di piccoli gruppi sull’economia“.
EFFETTI SULLA POLITICA ITALIANA
Secondo Giulio Andreotti: «Non è difficile constatare, testi alla mano, che i primi documenti programmatici della Democrazia Cristiana si rifacevano alle prime bozze del Codice di Camaldoli, anche se questo non aveva dirette finalità di parte. Ma c’è di più, al Codice si ispirano molte norme della stessa Costituzione della Repubblica».
Secondo Paolo Emilio Taviani, il “Codice” avrebbe in seguito fortemente ispirato i politici democristiani impegnati ad operare le riforme che, partendo dal superamento dell’autarchia e del protezionismo, prevedevano la liberalizzazione degli scambi con l’estero.
Avrebbe influito anche sulla politica abitativa (“piano-casa di Fanfani”), sulla questione meridionale (istituzione della Cassa per il Mezzogiorno), sulla previsione di opere per le aree depresse del Centro-Nord, sulla riforma agraria, sulla costituzione e gestione di “enti a partecipazione statale” (come l’Eni, l’Efim, l’Iri), sulle riforme della previdenza sociale, sulle infrastrutture (piano autostradale) e sulla nazionalizzazione delle fonti di energia (come per l’elettricità, con la nascita dell’Enel).
Il sistema delle cosiddette “partecipazioni statali”, in particolare, fu oggetto di successive critiche.
Con la trasformazione di quel programma in leggi, si era infatti sviluppato un sistema di partecipazione dello Stato nell’economia, brevemente indicato come “sistema delle partecipazioni statali”.
Secondo Mario Ferrari Aggradi, che rigettò aspramente quelle critiche, tale sistema permetteva di perseguire egregiamente alcune finalità [ad esempio quella della piena occupazione] e, anzi, lo riteneva “strumento preferenziale per un intervento pubblico in economia“.
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Mi preme ricordare, a questo punto, quanto il conosciutissimo Nino Galloni [https://it.wikipedia.org/wiki/Nino_Galloni] — collaboratore, fra l’altro, del post-keynesiano Federico Caffè (di cui sottolineo, per chi vuol capire, il saggio “Processo a Berlinguer”) — ebbe a dire in un convegno nella mia città.
A suo tempo [1979 e seguenti], quando era Funzionario del “Ministero del Bilancio e della Programmazione Economica” — dove si interessava delle strategie industriali all’interno delle politiche macroeconomiche del Governo — il suo lavoro ed il “sistema delle partecipazioni statali” fu oggetto di studi profondi da parte dei corrispondenti cinesi.
In poche parole, lo sviluppo cinese — un mix fra stato e privati — fu mutuato dal sistema italiano. Mentre da noi veniva mano a mano smantellato, sulla sua base avveniva la più grande e rapida crescita di tutti i tempi di un sistema economico.
Tutto questo per ricordare che le soluzioni per dare un futuro al nostro Paese sono già scritte nella pagine della nostra storia.
Con l’imprescindibile premessa del ritorno all’autonomia politica ed economica [Italexit], basterebbe rileggere la nostra storia, adattandola ai nostri tempi.
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Franco
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