Se è vero che lo scopo degli stati occidentali contemporanei è produrre sicurezza e felicità per i loro cittadini, i modi per raggiungere tale sicurezza sono evidentemente molto diversi tra culture e climi differenti o, per dirla meglio, le paure e le ansie delle varie popolazioni possono avere manifestazioni e urgenze diverse, cioè creare allarmi di diverse intensità, e conseguentemente essere trattate in modo molto diverso dai vari governi.
È infatti normale che un governo si occupi delle principali preoccupazioni del suo popolo, e investa una parte della sua attenzione e azione amministrativa, quindi una parte del budget, per fronteggiare le singole paure, o almeno quelle che generano un maggiore allarme sociale.
E la morte, per quasi tutti gli esseri viventi, è la prima delle paure, quella che accomuna praticamente tutti, senza distinzione di censo, di razza o di condizioni climatiche in cui si vive, e la variabile vera, pensando alla morte, non è se accadrà, ma quando accadrà.
Però, se analizziamo i dati della spesa pubblica, o quelli della spesa sanitaria, e proviamo a confrontarli con le varie cause di morte scopriamo che non sempre si possono evidenziare correlazioni evidenti tra un oggettivo pericolo e l’investimento pubblico per scongiurarlo.
E possiamo notare alcune profonde anomalie, cioè casi in cui le organizzazioni pubbliche statuali accettano costi altissimi per debellare alcune cause di morte statisticamente irrilevanti, mentre altre cause, oggettivamente di maggiore incidenza statistica, cioè con un rischio evidentemente più alto, o semplicemente più evitabili, non scatenano altrettanta attenzione.
Nel mondo intero, su una popolazione di circa 7,7 miliardi di abitanti, ogni anno muoiono più di 60 milioni di esseri umani, con un tasso di mortalità di circa lo 0,8%, mortalità che varia molto tra le varie zone a seconda delle condizioni economiche, culturali e di sviluppo, e soprattutto a seconda del livello di anzianità della popolazione, dallo 0,7% in paesi giovani come Cina e India a tassi superiori all’1% in paesi dove la natalità è molto più bassa e la popolazione è ovviamente più anziana, come Italia, Francia e Germania e molti altri paesi europei.
E di questi 60 milioni, la maggior parte (WHO 2017) muore di qualche malattia o di vecchiaia, solo 3,5 milioni (poco meno del 6%) muoiono per cause accidentali o comunque non naturali, tra le quali 1,25 milioni muoiono ogni anno di incidenti stradali, quasi 800.000 si suicidano ma oltre 400.000 vengono assassinati, quasi 300.000 muoiono affogati, solo 10.000 muoiono durante disastri naturali ma ben 72.000 muoiono avvelenati, 120.000 muoiono negli incendi e 130.000 muoiono nei tanti conflitti e guerre, e ben 26.000 risulterebbero essere vittime di atti terroristici.
Cosa fanno i vari governi del mondo per ridurre questa strage? Quanti soldi si spendono per evitare questo esercito di vittime? È molto difficile scorporare dai bilanci pubblici e privati gli investimenti destinati ad evitare queste tragedie, come è altrettanto difficile contabilizzare il costo diretto di tutte queste morti, ma ci sono alcuni casi specifici in cui è possibile trovare degli indicatori di massima che ci consentano di fare dei confronti.
Abbiamo detto che fra i 60 milioni di morti annue ci sono circa 3,5 milioni di morti per cause meno naturali o comunque scatenate da comportamenti errati dell’uomo, ma tutti insieme questi decessi avvengono a fronte di una spesa sanitaria annua mondiale complessiva di 7.800 miliardi di dollari, poco più di 1.000 dollari a testa per ogni abitante della terra, ma sarebbe errato dire che questa spesa serve a curare quei 60 milioni di esseri umani che muoiono ogni anno. Infatti questa enorme spesa sanitaria, non rappresenta solo il costo sanitario dei deceduti, bensì più in generale quello per garantire a tutta la popolazione mondiale la speranza di non entrare a far parte di quei 60 milioni meno fortunati. Possiamo dire che il mondo spende questi soldi per curarsi da malattie e ferite, per assistere la natalità e per migliorare le condizioni sanitarie, quindi non solo per evitare, o rinviare, la morte.
Quasi mai, però, l’allocazione di queste risorse è direttamente correlata al reale pericolo per la collettività, anzi più spesso l’allocazione delle risorse pubbliche per la sicurezza collettiva è condizionata da altri fattori, anche speculativi, a volte derivanti da panico diffuso, altre volte da panico o pressioni sociali incentivate ad arte per fini economico speculativi, altre ancora da coesistenti, ineleganti o inopportune ma spesso inconfessabili, ragioni di stato.
Ad esempio, tra le cause di morte prima censite ce n’era una assai significativa, la morte per conseguenza di atti o eventi terroristici, che secondo le statistiche (ONU 2017) colpisce in tutto il mondo circa 26.000 persone all’anno. È quasi impossibile trovare dati sulla spesa mondiale in proposito, ma è nota almeno quella degli Stati Uniti d’America che, duramente colpiti dall’attacco del 11.09.2001 alle Torri Gemelle di New York e dagli attacchi simultanei ad altri obiettivi, nei quali si contarono complessivamente tremila morti e seimila feriti, dichiararono guerra non ad uno stato, ma al terrorismo islamico di Al Quaida. Un conflitto iniziato nel 2001 e praticamente ancora non terminato, anche se il nemico per definizione è cambiato da Al Quaida al sopravvenuto Islamic State. Per questa guerra al terrorismo, secondo stime attendibili dello Stimson Institute, tra il 2002 e il 2017 gli Stati Uniti hanno stanziato e speso, oltre al normale budget della Difesa, circa 2.800 miliardi di dollari, cioè 175 miliardi di dollari all’anno.
Durante i 16 anni di questa operazione di “polizia internazionale” i civili americani morti per atti di terrorismo, dovunque accaduti nel mondo, sono stati mediamente 25 all’anno (cioè 400 in 16 anni), mentre nel corso delle operazioni correlate in Afghanistan le Forze Armate americane registrano nello stesso tempo circa 2.000 morti militari e altri 1.600 morti tra i vari contractors civili, rispettivamente 125 e 100 caduti mediamente all’anno, ai quali si aggiungono circa 20.000 feriti spesso rimasti invalidi.
I vari governi americani tra il 2001 e il 2017 hanno legittimamente deciso di debellare la minaccia del terrorismo islamico sopportando un costo in vite umane di circa 250 perdite all’anno e un costo finanziario di circa 175 miliardi di dollari all’anno, apparentemente per evitare che potessero succedere in futuro altri fatti come quello scatenante delle Torri Gemelle, costato in termini di vite umane circa 3.000 decessi e che ha scatenato richieste di indennizzo alle assicurazioni per almeno 40 miliardi di dollari, cifra che rappresenterebbe i danni diretti e indiretti dell’evento, ai quali andrebbero aggiunti il costo del crollo dei mercati borsistici (che persero in una settimana il 15%), e altri danni al prestigio internazionale degli USA difficilmente quantificabili.
Al di la dei pur significativi danni materiali, la ratio è che il governo americano ha ritenuto di spendere 2.800 miliardi di dollari per garantire ai cittadini americani il diritto di poter circolare liberamente per le strade del mondo senza doversi preoccupare di restare inaspettatamente vittime di un imprevedibile attacco terroristico.
Purtroppo, per uno strano contrappasso, nello stesso periodo di tempo sul suolo americano si registrano 803 persone vittime di “mass shootings”, a cui si aggiungono altre 1.104 persone ferite. Insomma, mentre i soldati americani combattevano contro il terrorismo nelle lontane e desolate lande di Afghanistan e Iraq, sulle strade di casa alcuni squilibrati senza comprensibili motivi causavano mediamente 50 morti e 70 feriti all’anno, ma per combattere questo assurdo stillicidio di vite umane, mediamente il doppio di quelle dichiarate come vittime del terrorismo nello stesso periodo, non risultano azioni o finanziamenti concreti o specifici.
Carloalberto Rossi e Giorgio Saibene
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