Ambrose Evans-Pritchard per The Telegraph
Il “libro mastro” è brutalmente chiaro. Il regime di Xi Jinping non ha alleati di peso né credibilità economica globale.
In seno al “Consiglio dei Diritti Umani” dell’ONU (un organismo controllato da Pechino) sono stati 53 i Paesi che hanno appoggiato il “trattamento” della Cina a Hong Kong.
Ma costituiscono solo il 4pc del Pil mondiale!
La maggior parte sono Stati autoritari, oppure Staterelli bloccati nel nesso neocoloniale delle infrastrutture della Belt & Road.
L’unico membro del G20 ad essersi schierato dalla parte della Cina (e contro la Gran Bretagna) è stato l’Arabia Saudita di Mohammad bin Salman, un’autocrazia a medio-reddito in difficoltà perché non sa più a chi vendere il petrolio in eccesso.
La lista offre una visione dell’ordine strategico che sta emergendo all’inizio di questo secolo.
Le ricche Democrazie Occidentali e Asiatiche, che ancora controllano il “sistema economico internazionale”, si stanno coalizzando in un fronte unito.
La Cina sta cominciando a pagare il prezzo, esorbitante, della sua diplomazia da “lupo guerriero”.
Xi ha dato un brutto assaggio su come diventerebbe il mondo se il Partito Comunista raggiungesse la supremazia globale.
Questa settimana si è spinto fino al punto di estendere la giurisdizione extraterritoriale della “Legge sulla Sedizione” (di cui all’art. n. 34) a qualsiasi cinese che si trovasse in qualsiasi parte del mondo.
È un tentativo davvero stravagante di reprimere la libertà di parola a livello globale.
Il Prof. Donald Clarke della “George Washington University” ha detto che l’intento era semplicemente quello d’incutere il “timor di Dio” in tutti i cinesi-critici del mondo.
Eppure, la Cina non è una potenza economica e tecnologica sufficientemente sviluppata da poter fare tutto da sola in questo modo.
Si potrebbe dire che Xi abbia fatto un salto nel buio — ma non esiste, d’altro canto, un percorso lineare che possa portare alla supremazia cinese.
In un certo senso, la Cina del dopo-Mao ha raggiunto il suo apice e sta imboccando il “viale del tramonto”.
Il “secondo derivato” — prendendo in prestito il linguaggio degli hedge fund — cominciò a girare già nel 2007.
Fu l’anno in cui l’economia cinese conquistò tutti.
Armata di una moneta sottovalutata, accumulò un avanzo di CC (mercantile) pari a 10pp di Pil (da allora scomparso) e 4.000 miliardi di dollari di riserve estere.
Una doppia debolezza che alcuni scambiarono per forza.
La sua vorace espansione industriale stava guidando un superciclo di materie prime: la Cina assorbiva metà della produzione mondiale di minerale di ferro e il Brent quotava 148 dollari al barile.
Ma poi la Cina commise un grosso errore.
Gli strateghi del PCC conclusero, sbagliando, che la crisi della Lehman aveva ferito in modo permanente gli Stati Uniti, mettendo in luce la vulnerabilità del “libero mercato”.
Il Politburo restò aggrappato a quel modello di crescita ben oltre la sua data di scadenza, perché dipendeva (e dipende) dal “Capitalismo di Stato ” e dalle SOE, “Entità Statali di Produzione”.
Questi bestioni sono “macchine di mecenatismo e consenso” al servizio dei boss regionali, che servono a Xi Jingping per controllare il Partito.
Otto anni fa il Premier Li Keqiang mise in guardia contro quest’errore di calcolo, attraverso uno studio congiunto fra la Banca Mondiale e il suo “Consiglio per la Ricerca e lo Sviluppo”.
Il rapporto diceva che i frutti dell’industrializzazione guidata dallo Stato erano in gran parte esauriti e che la “crescita in rimonta” guidata dal know-how importato aveva raggiunto i suoi limiti.
Concludeva sostenendo che Pechino avrebbe dovuto abbracciare il pluralismo e allentare al contempo la presa soffocante sulla società, se voleva prosperare sulla “frontiera tecnologica”, dove l’aria è più rarefatta.
Il ritardo avrebbe relegato la Cina nella “trappola del reddito medio” che aveva afflitto vari Paesi nel mondo [https://it.qwe.wiki/wiki/Middle_income_trap].
Inoltre, il rapporto metteva in guardia sul fatto che il “business-as-usual” avrebbe portato a “insopportabili attriti” con i partner commerciali.
Li Keqiang aveva ragione.
In Cina, la crescita della “produttività totale” è crollata dal 2,8pc dei primi anni 2000 (dati della Banca Mondiale) allo 0,7pc dell’ultimo decennio.
La Cina si trova sulla “traiettoria della convergenza” sperimentata dal Giappone e dalla Corea (dopodiché sono decollate passando al livello d’elite) da troppo tempo.
Rischia di fermarsi molto prima di diventare ricca.
La saga della Huawei ha messo in luce quanto il Paese sia ancora in ritardo.
Una sorpresa per coloro che si erano bevuti il racconto mediatico dell’ascesa dell’hi-tech cinese.
La Cina non è ancora in grado di realizzare i “chip a semiconduttori avanzati” utilizzati per le telecomunicazioni e per i “circuiti FGPA programmabili”.
Non padroneggia nemmeno l’automazione della progettazione elettronica, necessaria per la progettazione dei circuiti.
Le manca inoltre la “materia prima critica” necessaria a sostenere le sue ambizioni di dominio globale sul G5 e sul conseguente “internet delle cose”.
Il “Centro per gli Studi Strategici e Internazionali” stima che la Cina non abbia ancora risolto il problema della “scienza dei materiali” relativa ai più recenti “chip microscopici”, nonostante abbia investito molto denaro in questa sfida (l’ultimo dei programmi è costato più di 20 miliardi di dollari).
La sua industria dei “chip di fascia alta” è in ritardo di dieci anni e, quando arriverà, l’infrastruttura del “cyber dominio globale” sarà già in funzione.
In breve, gli Stati Uniti controllano l’ecosistema mondiale dei semiconduttori, lavorando a stretto contatto con Giappone, Corea e Taiwan.
Tutto ciò che Washington ha dovuto fare, alla fine di maggio, è di schioccare le dita … e la TCMS di Taiwan ha immediatamente tagliato le forniture di chip alla Huawei, condannando in un colpo solo la ricerca globale dell’azienda sul G5.
La Gran Bretagna non potrebbe restare con la Huawei nemmeno se lo volesse.
Il Congresso degli Stati Uniti non permetterà a un braccio dello Stato Cinese (al servizio della “dottrina della fusione civile-militare”) di acquisire il controllo globale su uno snodo-tecnologico-chiave.
Non è necessario alcun divieto da parte di Downing Street. Sarà sufficiente la politica francese della “dissuasione silenziosa”.
Qualsiasi Gruppo di Telecomunicazioni che, in queste circostanze, volesse portare avanti il piano G5 della Huawei, si suiciderebbe finanziariamente.
Documenti interni della Deutsche Telekom parlano di un’Armageddon se fosse costretta a sostituire i 3 miliardi di euro di apparecchi Huawei già installati.
Ma, se questo vogliono, questo otterranno.
L’economia cinese sembra più forte di quanto sia nella realtà perché la produzione è stata drogata dall’illusione della “bolla di credito sistemica”.
Di conseguenza, il rapporto “debito pubblico + privato” è arrivato al 330pc, portando a un insieme di cattivi investimenti e a un sempre minore ritorno macroeconomico sui prestiti.
Il controllo dello Stato sul sistema bancario garantisce, probabilmente, che tutto questo non si concluda con un “Minsky Moment” o con una classica crisi finanziaria [https://it.wikipedia.org/wiki/Momento_di_Minsky].
Ma finirà comunque in stagnazione.
Capital Economics sostiene che il “tasso di crescita economica strutturale” sia già sceso al 4,5pc e che stia dirigendosi verso il 2–3pc.
La Cina è ora in difficoltà.
Ha bisogno che le sue aziende godano di un accesso globale e senza ostacoli ai mercati per poter raggiungere la svolta critica raggiunta da Giappone e Corea.
È invece esclusa da un Paese dopo l’altro come risposta alle sue provocazioni.
L’India ha vietato TikTok e altre 58 applicazioni cinesi la scorsa settimana, apparentemente per motivi di sicurezza.
Gli Stati Uniti hanno congelato China Mobile e stanno bloccando i Trasformatori cinesi dalla rete elettrica.
L’UE, a sua volta, sta avviando un programma per controllare le imprese cinesi sospettate di pratiche predatorie.
Xi Jinping non si tirerà indietro su Hong Kong, ma il costo dei conflitti commerciali con diversi Paesi non è più trascurabile.
L’azione punitiva contro Australia e Canada è stata un disastro per la credibilità globale di Pechino e, prendersela con la Gran Bretagna, aggraverebbe il danno.
Ogni episodio accelera la creazione di un’alleanza per il suo contenimento e, presto, il mondo scoprirà che il soft-power americano è ancora vivo e vegeto.
Xi Jinping scoprirà, invece, che la sua strategia di eliminare le nazioni una ad una sta portando la Cina in un vicolo cieco.
“Se facciamo della Cina un nemico, vuol dire che la Cina diventerà un nemico”— ha detto Liu Xiaoming, Ambasciatore cinese a Londra, giocando sul tema della “Trappola di Tucidide”.
Ha proposto questa storica analogia per dimostrare che una guerra sarebbe inevitabile se la Potenza dello status-quo (Sparta–Stati Uniti) cercasse di tenere a freno l’ascesa della rivale (Atene–Cina).
È una nozione assai utile per Pechino, perché serve a paralizzare l’Occidente.
Ma, davvero, non ha alcuna rilevanza nell’attuale scontro di potere … perché la Cina non è più una Potenza in ascesa.
Invecchia più rapidamente dell’Occidente e così ha prosciugato il suo “esercito di riserva”, costituito dai lavoratori che migrano dai villaggi.
La forza-lavoro è già in contrazione e si ridurrà di 200 milioni di persone nei prossimi trent’anni, in uno spettacolare crollo demografico.
La risposta britannica sulla Huawei, su Hong Kong e sulle crescenti minacce cinesi dev’essere educata ma inflessibile, sapendo che la mano di Xi Jinping è una “busted flush” [mancato “colore” a poker].
Se le Democrazie “tengono duro” e restano unite, la Cina alla fine si stabilizzerà accettando il seppur ingrigito status-quo.
Forse, accetterà anche che il suo “progetto di supremazia globale” sia destinato a non andare da nessuna parte.
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Link Originale: https://www.telegraph.co.uk/business/2020/07/09/britain-should-not-quake-xi-jinping-china-has-already-peaked/
Scelto e tradotto da Franco
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