Redazione: Con quest’articolo parliamo di un Paese (e di un “colpo di stato”) che di norma non suscita alcun interesse, sullo sfondo della Campagna Elettorale negli Stati Uniti che caratterizzerà il resto del secolo.
Eppure, il Mali è un Paese importante per l’Italia, perché da lì passa il traffico di esseri umani diretto in Sicilia. Ma è anche la porta d’ingresso verso Paesi che finiranno con lo svilupparsi.
Esiste anche una storia nella storia. Ci riferiamo al silenzio che circonda la missione militare italiana nel Mali. L’ostilità francese. L’imbarazzo dell’ECOWA. Insomma, cosa sta succedendo?
Una riflessione è quindi quanto mai opportuna. Il Mediterraneo e l’Africa del Nord fanno parte del nostro futuro. Pericoloso distogliere lo sguardo.
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Roger Kaplan per The American Spectator
Convention Repubblicana e Democratica. Se anche il “colpo di stato” in Mali fosse stato menzionato, francamente non l’ho notato.
E’ improbabile, in effetti, che possa essere presentato come argomento di discussione durante la campagna elettorale.
Che è esattamente come dovrebbe essere.
A parte il basso profilo che la politica estera ha sempre avuto nelle Elezioni Presidenziali, ci sono ragioni specifiche per cui entrambi i Partiti preferiscono non discutere del Mali, del Sahel e del Continente Africano.
I Democratici non vogliono parlarne perché ricorderebbero agli elettori che il loro Candidato faceva parte di quella “cerchia ristretta” che ha distrutto la Libia nel 2011.
Le ripercussioni di quella vicenda continuano ancora oggi, causando dolore e sofferenza a milioni di persone.
Il “colpo di stato” a Bamako (la Capitale del Mali) è solo l’ultima conseguenza di quell’atto d’irresponsabilità politica degno di un film di gangster.
Se i Democratici tirassero in ballo il Mali, inviterebbero i loro avversari a dire:
“Bene, siamo lieti che l’abbiate menzionato. Cosa avete mai fatto per l’Africa e per gli africani — e per i loro discendenti in America — se non condannarli alla miseria e girare lo sguardo dall’altra parte?”.
Dite quello che volete sulla politica estera di G.W. Bush, ma diede vita in Africa ad alcune iniziative che si rivelarono positive — ad esempio un importante contributo per sradicare le malattie endemiche.
Sul fronte politico, inoltre, sostenne la liberazione del Sud-Sudan dal regime arabo-africano di Khartoum.
Il predecessore del Presidente Bush (Bill Clinton), invece, rimase a guardare e fece finta che la guerra tribale in Ruanda non fosse né un genocidio né un massacro, per evitare di dover usare la forza necessaria a fermarla.
Anche il successore di G.W. Bush (Barak Obama) scelse di stare “dietro le quinte” durante la rivolta contro Moammar Gheddafi.
Una cosa non porta necessariamente a un’altra, ma a quel fallito intervento sono seguiti dieci anni di guerra civile con una violenza appena al di sotto di quella siriana.
Una serie di guerre tribali sostenute da potenze esterne, di rapimenti e stupri, di bambini e donne ridotti in schiavitù non solo in Libia, ma in tutto il Sahel.
Il Mali non è l’unico Paese ad aver subito le conseguenze dell’avventura libica e si poteva pensare che i Repubblicani l’avrebbero menzionato come esempio di ciò che accade quando si lascia che i Democratici gestiscano la politica estera (e le città americane).
Avrebbero potuto scendere anche più in basso e osservare che i Democratici perseguono una politica che avvantaggia i briganti e gli schiavisti arabo-berberi, a scapito dei neri africani.
La ragione del silenzio Repubblicano è che, ai fini della campagna elettorale, è meglio concentrarsi sui successi dell’Amministrazione Trump in Medio Oriente (Gerusalemme, Israele-UAE), piuttosto che su questioni che potrebbero imbarazzare (ad esempio il sostegno ai sauditi nello Yemen).
Non sono questioni da tirar fuori in un anno di Elezioni Presidenziali.
A margine, è da rilevare che i cinesi hanno fatto grandi investimenti in tutta l’Africa.
Anche nel Sahel, ovviamente, dove sperano di costruire infrastrutture per sfruttare le risorse [uranio] di questa remota e per certi versi primitiva regione.
Quella parte d’Africa è inoltre destabilizzata dalle aggressioni di piccole bande legate a organizzazioni jihadiste, alcune supportate da poteri esterni.
Il Sahel è infestato anche dal contrabbando e dal traffico di esseri umani, difficili da contrastare per quegli Stati creati negli anni ‘50 e ’60 per rimpiazzare le amministrazioni coloniali europee (soprattutto francesi e britanniche).
Il Mali è al centro di tutto questo, nel Sahel.
Sulla scia del fiasco libico, il suo Presidente fu rovesciato dai militari, che lasciarono il posto a un Presidente eletto.
Quest’ultimo è stato rovesciato qualche settimana fa da un altro gruppo di militari, che però non l’hanno fucilato.
Lo hanno lasciato andare assieme a suo figlio, che era tornato per iniziare una carriera politica.
Né i Democratici né i Repubblicani vogliono davvero entrare in questa storia. Almeno non in un anno elettorale.
Né vogliono relazionarsi con esperti come Ivor Ichikowitz — un imprenditore sudafricano di successo che, all’inizio di quest’anno, ha pubblicato i risultati di un’indagine sui giovani africani.
Anche se quello studio potrebbe non passare l’esame dell’”American Social Science Association” (probabilmente a suo merito), testimonia comunque la profonda aspirazione del Continente a un’evoluzione sia politica che di libera impresa.
È la prova che l’Africa si trova in un’era post-post-coloniale, ispirata agli ideali americani del 1776 (ma senza imitazioni di facciata) che, tuttavia, è vista con sospetto da alcuni americani.
Il Mali si trova ora a un punto di svolta, a causa delle ostilità fra la Giunta neo-installata e i suoi vicini, uniti in un’organizzazione chiamata ECOWA (Comunità Economica degli Stati dell’Africa Occidentale).
Nel tentativo di consolidare la democrazia nella regione, l’Organizzazione si oppone al rovesciamento di Governi regolarmente eletti, incoraggiata in questo senso dai funzionari statunitensi ed europei, ma anche dalle ONG (in realtà Quango).
In effetti, ci sono Leggi che impongono la sospensione degli aiuti militari statunitensi (e talvolta anche di altri aiuti) nel caso di “colpi di stato”.
Pur tenendo conto delle circostanze eccezionali, le sanzioni sono entrate in vigore e stanno limitando i flussi di capitali e di armi nel Mali — ma in questo modo i jihadisti e i briganti del nord sono incoraggiati ad attaccare i grandi centri abitati.
A presidiare il territorio restano i francesi [importatori dell’uranio estratto nel Paese] che, per il momento, mantengono una presenza militare nel nord, dove danno la caccia ai Tuareg tenendoli fuori, salvo qualche incursione, da Timbuktu e Kidal.
Anche i militari dell’”Esercito degli Stati Uniti in Africa” pattugliano regolarmente il Sahel.
Assieme a francesi e ad altri europei addestrano quei soldati africani il cui ruolo è a volte criticato dagli occidentali, che usano come pretesto i diritti umani e la democrazia, ignorando la realtà africana.
Ora, però, si sta parlando di ridurre l’”impronta” americana in Africa. Possibilità che allarma francesi e ciadiani, diventati troppo dipendenti dalle Forze statunitensi.
Ma alla base ci sono questioni sia strategiche che di bilancio, tenute accuratamente nascoste agli occhi dell’elettorato.
Il Mali comunque se la caverà. Tutta l’Africa riuscirà a farcela, unendosi al resto del mondo per scrivere insieme un altro capitolo nella Storia dell’uomo.
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Link Originale: https://spectator.org/bing-bang-bamako/
Scelto e tradotto da Franco
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