Patrick J. Buchanan, Buchanan.org
Negli ultimi giorni della “campagna elettorale 2020”, il Presidente Donald Trump ha tenuto negli stati-chiave quattro/cinque discorsi al giorno, radunando ogni volta migliaia e migliaia di persone.
Dopo aver aspettato a lungo per vedere il loro “campione”, a volte anche al freddo, questi supporter hanno mostrato un tale affetto verso Trump che solo pochi altri Presidenti hanno potuto vantare.
Chi scrive non riesce a ricordare un Presidente e una “campagna elettorale” in grado di far uscire allo scoperto, negli ultimi giorni, una tale quantità di ammiratori.
E chi sarebbero — agli occhi delle nostre élite screditate — questi americani esultanti che portano i figli ai raduni per far loro guardare e ricordare “il grande Trump”?
Sono solo un “mucchio di deplorevoli” — per come li ha derisi Hillary Clinton — razzisti, sessisti, omofobi, xenofobi, islamofobi e bigotti … ovvero una sottospecie di umanità ormai irrecuperabile?
L’elezione è stata diversa da qualsiasi altra, “o noi o loro”, perché le questioni in ballo sono più ampie e profonde che mai.
E sollevano domande importanti: a prescindere da chi dovesse vincere, sarà in grado questa nazione di “riunirsi” di nuovo? E, se non ce la facesse (fatto assolutamente possibile), quale forma assumerà l’America nel momento in cui dovesse disgregarsi?
Mentre milioni di elettori spedivano i loro voti per posta, i negozi nelle nostre grandi città venivano barricati contro i rivoltosi, i saccheggiatori e i piromani.
Chi vive in periferia, a sua volta, ha accumulato armi e munizioni nel timore di doversi confrontare con i violenti facinorosi che operano nei centri urbani.
Ma quanto siamo divisi?
Il “Sunday Review” del New York Times ha dedicato tutta la sua sezione a Donald Trump, visto con gli occhi dei suoi editorialisti.
Sulla pagina di copertina della rivista c’era questo titolo: “Tutti i quindici nostri editorialisti spiegano quanto sono costati all’America gli ultimi quattro anni e qual’è la posta in gioco in queste elezioni“.
Tutti gli editorialisti si sono espressi pesantemente contro Trump.
È vero, comunque, che dalla “2a Guerra Mondiale” in poi ci sono state altre elezioni aspramente combattute.
Non tutte sono state come quella del 1960, quando Arthur Schlesinger Jr. si sentì obbligato a scrivere il libro: “Kennedy o Nixon: cambia davvero qualcosa?“
Schlesinger voleva far emergere le differenze fra i due candidati, entrambi quarantenni, difficilmente visibili a occhio nudo.
Tuttavia, il paese si è ripreso anche dopo le elezioni più controverse del dopoguerra, quelle del 1952 e del 1968.
I Presidenti Dwight Eisenhower (1952 – 1956) e Richard Nixon (1968 – 1972) furono in grado di ripristinare l’unità nazionale nel corso dei loro primi mandati, ponendo fine alle guerre asiatiche cominciate dai loro predecessori.
Le nuove leadership, quindi, posero fine alle guerre e riunificarono gli Stati Uniti.
La differenza rispetto a oggi?
E’ che gli americani non sono più divisi sulle guerre.
Uno dei successi di Trump è stato quello di averci risparmiato nuove guerre (anche se non ci ha ancora tirato fuori da quelle che ha ereditato).
Oggi siamo divisi su ideologia, morale, cultura, razza e storia.
Siamo divisi sul fatto che l’America sia davvero il grande paese che abbiamo imparato ad amare, o piuttosto una nazione nata attraverso dei grandi crimini — come il quasi annientamento degli Indiani e delle loro culture, o la schiavitù di centinaia di migliaia di Africani.
Siamo la nazione del 1776 e del 1789 o quella del 1619, le cui Istituzioni sono ancora contaminate dal “razzismo sistemico” derivato dalla nostra nascita?
In un paese spaccato a metà gli americani di oggi sembrano davvero odiarsi a vicenda.
A pensarci bene, se gli Stati Uniti non esistessero già come nazione, persone con idee così contrapposte accetterebbero di riunirsi intorno a un progetto condiviso, o preferirebbero restarsene separate con le loro individualità?
Con l’abbattimento delle statue di esploratori come Cristoforo Colombo, o quelle dei Padri Fondatori e dei successivi Presidenti (da Andrew Jackson ad Abraham Lincoln, da “Teddy” Roosevelt a Woodrow Wilson), questa gente ha manifestato il proprio disprezzo per il paese che questi grandi uomini hanno contribuito a creare e, soprattutto, per ciò che esso rappresenta.
Una fetta non trascurabile di giovani americani crede ormai che la nazione cui appartengono sia da detestare sin dalla sua nascita e che la civiltà occidentale da cui è scaturita non valga la pena di essere salvata.
Nel suo discorso di congedo, il Presidente Ronald Reagan parlò dell’America in cui era cresciuto e che lui amava profondamente:
“La speranza di libertà, la sua ricerca e il suo raggiungimento, riassume in pieno la saga americana.
Spesso ricordo quei coloni che attraversarono pericolosamente l’Atlantico su una piccola nave.
Al comando c’era un Padre Pellegrino [John Winthrop] consapevole che un cattivo esito della loro impresa sarebbe stato ricordato in eterno come sinonimo di fallimento.
O magari solo come un dettaglio insignificante della storia.
Ma, con l’aiuto di Dio, avrebbero anche potuto fondare un nuovo mondo, una città su una collina, una luce per le tutte le nazioni“.
Quanti americani credono ancora a ciò in cui credeva Reagan?
Quanti vedono ancora l’America come “una città su una collina, una luce per tutte le nazioni”?
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Link Originale: https://buchanan.org/blog/can-a-disintegrating-america-come-together-142322
Scelto e tradotto da Bart
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