Luca Colaninno Albenzio per Osservatorio Globalizzazione (le citazioni di A. Moro sono tratte dal seguente link).
Non è ipotesi di lavoro peregrina sospettare che la correttezza e la prudenza di un “Uomo buono, mite, saggio, innocente”, come Aldo Moro fu definito da Paolo VI, gli si siano ritorte contro per aver egli incarnato e innervato le buone ragioni di un progetto di politica interna ed estera, che ha portato l’Italia ai massimi livelli mondiali.
La scalata italiana alle classifiche internazionali disturbava e irritava non poco gli allora Potenti del mondo (M. J. Cereghino e G. Fasanella, Il Puzzle Moro, Chiarelettere, Milano, 2018), sebbene Moro non abbia mai rappresentato l’Italia come Paese sfidante:
“… anche nel crescere e nel crescere si può morire. Ma noi siamo qui perché l’Italia viva, e non come uno Stato di gracili strutture economiche e politiche, ma come un grande Paese moderno e civile, che abbia trovato il giusto ritmo tra lo sviluppo economico e sociale ed il progresso istituzionale e politico. Per giungere a tanto occorre che noi, Governo e popolo, siamo collegati in modo reale e durevole e profondamente solidali”.
La formazione culturale di Aldo Moro era giuridica, specificatamente quella del penalista educato a coltivare la libertà e a informare le relazioni paritarie tra Stati al principio sovraordinato della legalità internazionale, non solo in senso formale, quanto teso verso una superiore dimensione etica e auto responsabile:
“Questa politica l’attenzione, la prudenza, la tensione ideale, atte a salvaguardare i nostri fondamentali interessi di indipendenza e di sicurezza e il bene supremo della pace.
È quindi presente in essa … quella ansiosa ricerca di dignità, di libertà, di uguaglianza, di concordia e di progresso che contrassegna il nostro contesto sociale.
Da qui, il rifiuto dell’oppressione dei popoli e fra i popoli, il grave disagio di fronte alla violenza, dovunque e comunque esercitata, il riconoscimento di una società nazionale ed internazionale di eguali, il diritto all’autonomo sviluppo e al progresso”.
Moro era un convinto assertore dello Stato vestfaliano, nonché del principio della sovranità dello Stato, quale superiorerem non reconoscens.
Infatti il 30 aprile 1969, all’indomani delle dimissioni di Presidente Francese Charles de Gaulle, durante il discorso inaugurale della Fiera di Foggia, ebbe a dire: “È la società italiana che sceglie da sé il suo cammino e il Governo la guida e la asseconda”.
L’affermazione, di per sé impegnativa, oggi suonerebbe come una sfida all’asse franco-tedesco, allora dovette allarmare Lyndon Johnson, Leonid Breznev, Harold Wilson, perché l’Italia era considerata un Paese a sovranità limitata.
Non però Moro, secondo il quale “un sempre maggior numero di cittadini e gruppi sociali, attraverso la mediazione di partiti e delle grandi organizzazioni di massa che animano la vita della nostra società, ha accettato lo Stato nato dalla Resistenza.”
Nello stesso tempo era aperto alle più moderne teorie che ammettevano l’ingerenza umanitaria e la tutela internazionale dei diritti umani, attirandosi non poco l’ostracismo del blocco Sovietico:
“Il nostro popolo non è mai insensibile quando siano rivendicati i diritti della persona umana di fronte ad una gestione autoritaria della vita sociale.
Esso sa che le azioni contro intellettuali, scienziati ed artisti, colpevoli solo di avere espresso opinioni non gradite e non accettate, sono contrarie ai fondamentali principi di convivenza ed insieme rallentano il progresso di quegli Stati nei quali si riscontra una paralizzante intransigenza ideologica.
E‟ sulla base di questa convinzione che il Governo italiano ha registrato con ansia e con sorpresa, considerato il momento internazionale, le misure repressive nei confronti degli intellettuali del dissenso”.
Moro partecipò agli Accordi di Helsinki. Quale Presidente del Consiglio, rappresentò l’Italia.
Essi furono il tentativo di migliorare le relazioni tra il blocco comunista e l’occidente. Contribuirono alla riduzione delle tensioni della guerra fredda.
Ma relativamente alla parte in cui riproponevano l’antistorica cristallizzazione ideologica della divisione dell’Europa in due blocchi, funzionale al blocco dell’evoluzione democratica italiana, Moro si affrettò a ribadire che:
“l’Italia ha sempre avuto la convinzione che occorre dare allo svolgimento, graduale e non sempre piano, della distensione, un contenuto nuovo e più sostanzioso, al di là delle pur necessarie intese tra i Governi, vale a dire, l’esaltazione degli ideali di libertà e di giustizia, una sempre più efficace tutela dei diritti umani, un arricchimento dei popoli in forza di una migliore conoscenza reciproca, di più liberi contatti, di una sempre più vasta circolazione delle idee e delle informazioni
… L’Atto finale … prende atto degli assetti territoriali esistenti e delle fondamentali prospettive di cooperazione, ma vuole essere, soprattutto, per quanto ci concerne, un punto di passaggio verso il futuro.
Abbiamo cercato di riconoscere, ma non di cristallizzare la realtà. Abbiamo cercato di inserire la nostra opera in un contesto dinamico, affinché siano lasciate aperte le vie per una evoluzione pacifica, in conformità della libera volontà dei popoli, dei rapporti tra i nostri Stati
… Abbiamo potuto riaffermare un certo numero di principi fondamentali della convivenza internazionale, universalmente validi
… tra essi vorrei ricordare il rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, inclusa la libertà di pensiero, coscienza, religione e credo, la cooperazione pacifica delle controversie, il non ricorso alla forza e l’inviolabilità delle frontiere, ferma restando la liceità dei loro mutamenti in conformità del diritto internazionale, con mezzi pacifici e mediante accordi”.
Moro era uno strenuo sostenitore della libertà di autodeterminazione dei popoli per via democratica, sancito nel I punto dell’Atto finale di Helsinki.
Questo principio fu rispettato nei confronti dell’Italia, soprattutto per quel che atteneva il Partito Comunista? Moro sul punto era chiarissimo:
“Tanto infatti siamo chiusi alla confusione tra maggioranza ed opposizione, quanto siamo aperti alla attenta e costruttiva considerazione e valutazione politico-parlamentare di quel che viene pensando, dicendo e facendo valere con inalterata presenza il Partito Comunista sulle questioni cruciali che soprattutto la crescita tumultuosa del Paese va proponendo.
… È innegabile del resto che il Partito Comunista è la più potente delle opposizioni, ha forti radici popolari, elabora con impegno, e talvolta con finezza, tesi e proposte che il legame profondo con vasti settori di elettorato (non del tutto ideologicamente comunista) gli vanno suggerendo.
In questo stato di cose l’attenzione è dovuta ed il confronto interessante”.
Sulla totale assimilazione del PCI al sistema politico, Moro pensava che:
“Il processo di liberazione che ha nella condizione giovanile e della donna, nella nuova realtà del mondo del lavoro, nella ricchezza della società civile, le manifestazioni più rilevanti ed emblematiche … è un moto indipendente dal modo di essere delle forze politiche, alle quali tutte, comprese quelle di sinistra, esso pone dei problemi non facili da risolvere.
Questo è un moto che logora e spazza via molte cose e tra esse la “diversità‟ del Partito comunista. Esso anima la lotta per i diritti civili e postula una partecipazione veramente nuova alla vita sociale e politica.
È un fenomeno che può essere anche, per certi aspetti, allarmante, ma è senza dubbio vitale ed ha per sé, in una qualche forma di autocontrollo e di temperamento secondo l’esperienza, l’avvenire”.
Davvero si può ritenere che gli osservatori esteri non conoscessero le reali e manifeste intenzioni di Moro, o forse era più comodo attribuirgli strumentalmente pensieri non suoi?
Nessuno ha mai potuto sostenere che lo statista italiano sia stato un alleato men che fedele. Neppure dopo l’apertura degli “archivi segreti” sono emersi sospetti sulla lealtà atlantica di Moro.
Ma il mondo delle Relazioni Internazionali ha più livelli, palesi e occulti.
Non è governato solo dal “pacta servanda sunt”, ma indicibilmente dalla gerarchia dei rapporti di forza e dai colpi bassi, ovvero quanto di più estraneo possa esserci alla forma mentis legalitaria.
La raffinata civiltà giuridica di Moro, che si auto raffigurava l’Italia come Stato sovrano, era inevitabile che entrasse in contrasto con la visione muscolare e spartitoria dei Paesi più potenti, che consideravano l’Italia un Paese uscito sconfitto dalla Seconda Guerra Mondiale, occupato militarmente dagli anglo-americani.
Nessuno ha mai potuto tacciare l’Italia, uscita umiliata dal Trattato di Pace di Parigi del 1947, di non aver rispettato e onorato quel diktat.
L’aver retto i pesi imposti dai vincitori non è stato ritenuto sufficiente, semmai ha sortito il malcelato effetto opposto, fatto di invidie, maldicenze e sensazionalismi interessati, che Moro rintuzzava “esaltando nell’emigrazione le stesse virtù morali e civili del popolo italiano”.
Come i civilissimi Etruschi, senza che lo volessero, si trovarono accerchiati a dover da soli combattere contemporaneamente su tutti i fronti terrestri e marittimo contro una pluralità di nemici, così l’Italia del benessere della seconda metà degli anni sessanta e dei primi settanta del secolo scorso, avviata ad essere la seconda potenza industriale dell’Europa, si è ritrovata isolata, senza volerlo, nelle mire dei piani destabilizzanti di altri Paesi.
Il terrorismo fratricida di importazione, quale strumento politico, era quanto più lontano e aborrito ci potesse essere nel pensiero del cristiano Moro:
“È questo dunque il giorno che esalta la nostra dignità e la nostra responsabilità come singoli e come popolo, la nostra unità e solidarietà; la nostra comune volontà di vivere liberi in pace e in giustizia, rivendicando i diritti umani ed adempiendo a tutti i doveri che la nostra coscienza morale e civica ci detta, per rendere appunto libera, giusta, sicura e pacifica la nostra Patria”.
Gli antagonisti malevoli dell’Italia avevano interesse a fermare il disegno politico dell’Unità Nazionale, portato avanti da Moro e fondato sul “popolo italiano e sulla sua capacità e volontà di lavorare, di svilupparsi, di progredire, allineandosi in ogni campo in una nobile gara non priva di successi, con i popoli più moderni e civili, dell’Europa e del mondo.”
Moro, se non fosse caduto, sarebbe stato candidato a succedere a Giovanni Leone, alla Presidenza della Repubblica, posizione strategica dalla quale supervisionare la politica interna ed estera dei Governi.
Se alla politica di Moro si volesse rivolgere una critica postuma, errata e ingenerosa, facile col senno di poi, è quella di non aver perseguito una politica di potenza, a protezione del disegno politico.
Il caso del Professor Felice Ippolito sta ad indicare quanto fosse difficile in Italia il decollo dell’industria nucleare a fini pacifici. Il riarmo atomico era, ed è, precluso all’Italia dal Trattato di Parigi del 1946.
Moro, sin dagli anni giovanili è stato un sincero umanista amante della Pace:
“Noi non saremo inutili al mondo, finché obbedendo alla nostra vocazione più vera, che è artistica, religiosa, scientifica, umanistica insomma, non avremo perduto la nostra dignità di uomini liberi e occupati da problemi umani.
I quali non sono, per fortuna, problemi di guerra e di potenza (anche se presuppongono un minimo di sicurezza e di autonomia politica), ma problemi di pace, di una pace operosa, buona, ricca di quei moti interiori, veramente fecondi, nei quali la vita umana compie il suo destino”.
L’umanesimo integrale di Moro, allargato alle questioni internazionali, lo portava ad affermare dalla tribuna delle Nazioni Unite che:
“Non si può certo più ammettere che esistono ancora popoli che facciano la storia e altri che la subiscano: la coscienza democratica del mondo vi si oppone.”
L’antitesi, prima di tutto ideale, con la Realpolitik di Henry Kissinger, secondo il quale il Sud del mondo non ha mai prodotto Storia, non poteva esser più netta.
Moro fu artefice e dominus della politica estera italiana, sia come Presidente del Consiglio, sia come Ministro degli Esteri, ad iniziare dai primi anni sessanta.
Il suo pensiero politico era alieno da sudditanze e colonialismi di ogni genere:
“l’Italia cresce e mal si adatta agli schemi angusti del passato …sia assicurato al nostro popolo, nella concordia di intenti propria delle ore difficili, il suo avvenire di libertà, di benessere, di pace”.
Oggi un simile discorso passerebbe inosservato, ma al tempo della Guerra Fredda dovette quasi sembrare un invito ad abbandonare le divergenze tra gli uomini dei fronti opposti per coalizzarsi momentaneamente tutti insieme, potenti e meno potenti, contro il progetto di Moro.
La cristallizzazione divisoria di Jalta sarebbe stata di lì a poco ribadita con la “Conferenza sulla Sicurezza e Cooperazione in Europa” di Helsinki, appena sette mesi dopo.
Moro è stato un gigante della politica in grado di coniugare la vision di politica interna con la mission in politica estera:
“Contiamo nel mondo e non tanto come potenza o potenza militare, ma come un Paese di grande tradizione e cultura e di straordinario sviluppo economico e sociale.
E se l’Italia, superando talune interne debolezze ed incertezze, svilupperà ancora di più, secondo il suo genio, la sua capacità creativa, la politica estera del Paese conseguirà altri successi, significherà una presenza più incisiva, opererà con crescente influenza nella storia del mondo.
Non tutto dunque dipende da chi immagina e realizza la politica internazionale dell’Italia, ma molto risulta da quel che il Paese è nel suo insieme”
Il 23 luglio 1971, Moro da Ministro degli Esteri, alla Camera, in replica alle interpellanze di numerosi deputati, delineò l’affresco della politica italiana degli anni settanta verso l’estero vicino:
“Costantemente dedicata alla ricerca della pace e della cooperazione internazionale. Queste parole possono apparire convenzionali. Ma nel caso dell’Italia esse corrispondono, oltre che a radicati sentimenti del popolo italiano, ai suoi interessi più veri.
Essere convinti che il massimo interesse del nostro popolo è che la pace prevalga nel mondo, e particolarmente nel continente europeo e nel Mediterraneo, non vuole d’altronde dire che noi dobbiamo rinunciare alla difesa intelligente ed equilibrata dei nostri interessi.
Vuol dire che dobbiamo farlo tenendo presente le condizioni dell’equilibrio mondiale e dell’equilibrio europeo. Se non le valutassimo esattamente, potremmo mancare al nostro primordiale dovere, che è di assicurare, per noi e per le generazioni future, la libertà e l’indipendenza del nostro Paese”.
Moro era un protagonista attivo e felpato della politica mediterranea, nord africana e Medio orientale, consapevole dei limiti della proiezione italiana, ma nello stesso tempo conscio dell’importanza strategica della posizione della Penisola, consapevole della centralità della sicurezza energetica e dell’importanza dell’apertura dei mercati di esportazione.
Nella politica interna era in grado di adeguare i mezzi ai risultati sperati, sempre con un profilo basso, alla ricerca della mediazione, consapevole che l’alternativa sarebbe stata il salto nel buio della rottura.
Alla stessa prudenza si adeguavano i canoni della politica estera verso il resto del mondo.
In pochi avrebbero sospettato un Moro multilateralista, fuori dall’aria di influenza diretta degli Stati Uniti.
Moro era tanto antiveggente da essere in anticipo di un quarto di secolo rispetto agli sviluppi delle linee di tendenze delle relazioni internazionali:
“La regola aurea della politica estera di altri tempi voleva che i nemici dei nostri vicini fossero nostri amici. Tale regola è oggi sostituita in misura crescente dal principio: i nostri vicini devono essere nostri amici.
Si osserva in effetti, con sempre maggiore frequenza ed in tutti i continenti, il costituirsi di stretti legami di cooperazione e di unione fra popoli vicini.
… Vorrei qui ricordare le relazioni amichevoli che, con spirito costruttivo, l’Italia intrattiene, senza eccezioni, con tutti i Paesi con cui ha frontiere comuni o che, bagnati dal Mediterraneo, partecipano di uno stesso patrimonio di storia, di cultura e di interessi.
Ne esce la figura di un politico di spessore internazionale in grado comprendere il proprio tempo e quello che si apprestava a venire, molto diverso dalla massa dei politici di stampo ottocentesco, soliti ragionare con schemi a somma zero, del tutto assenti nella politica estera di Moro.
L’insegnamento di Moro in politica estera resta attuale e più vivo che mai.
Moro conosceva gli stereotipi interessati che dalla stampa internazionale colpivano l’Italia, ma non si lasciava impressionare. Sapeva che la sostanza era altrove:
“Quando si va all’estero e si stabiliscono rapporti con i responsabili politici e la classe dirigente dei vari Paesi, il rappresentante dell’Italia è preso da due contrastanti sentimenti.
di preoccupazione per tutto quello che, non fatto o non fatto bene al nostro interno, rischia di riflettersi gravemente sulla nostra immagine e sul nostro prestigio nel mondo.
… L’altro sentimento, contrastante, in un certo senso, con il primo, è la constatazione del credito di cui gode l’Italia, dell’importanza che hanno ancora nel mondo la sua storia, la sua arte, la sua cultura, la sua economia e la sua capacità creativa.
Magari non hanno rilievo cose che noi consideriamo importati, ma altre sentite da coloro con i quali abbiamo rapporti.
Ebbene, vi si assumerebbe una grave responsabilità non utilizzando, non utilizzando bene, questo rilevantissimo patrimonio che fa ancora oggi dell’Italia un punto di riferimento della vita internazionale.
Ed anche questo è opera nostra come accorti continuatori delle nostre tradizioni e promotori di un futuro che sia determinato, non solo dagli altri, ma da noi stessi”.
L’aver smantellato pezzo a pezzo ad opera dei nostri Alleati, grazie anche a responsabilità italiane, i risultati della politica estera di Moro, quando il presunto e gonfiato pericolo rosso non esisteva più, ha portato come risultato ad avere la Marina Militare turca in Albania e in Tripolitania e i contractors russi della Compagnia Militare privata Wagner in Cirenaica, cosa che neppure durante la Guerra Fredda avrebbero mai osato sognare.
Prima o poi all’Italia toccherà da sola confrontarsi con la Turchia e la Russia, divenuti i nostri nuovi vicini.
È stato Moro a rendere molle il fianco mediterraneo della NATO, o sono stati semmai i Paesi che ipocritamente si ergevano a fustigatori dell’Italia?
Aldo Moro, senza dimenticare i cinque uomini di scorta, ha pagato per l’Italia tutta. Via Fani segna il prima e il dopo della politica interna ed estera italiana.
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Scelto e pubblicato da Franco
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