Luca Colaninno Albenzio per Osservatorio Globalizzazione
Palazzo Chigi, residenza ufficiale del Presidente del Consiglio dei Ministri, non ha fatto in tempo ad accogliere il nuovo inquilino che dalla Russia sono emerse le prime aspettative verso il Governo presieduto da Mario Draghi.
Maria Zakharova, Direttore del Dipartimento Informazione e Stampa del Ministero degli Affari Esteri della Federazione Russa (al di fuori della consueta lunga conferenza stampa settimanale del giovedì sera con la quale annuncia al Mondo il punto di vista russo sulle questioni più rilevanti), nella serata del 17 febbraio ha rilasciato una breve dichiarazione a una news agency italiana,[1] in risposta al paragrafo sulla Russia contenuto nelle dichiarazioni programmatiche lette dal Presidente Draghi al Senato in quello stesso giorno:
“L’Italia si adopererà per alimentare meccanismi di dialogo con la Federazione Russa. Seguiamo con preoccupazione ciò che sta accadendo in questo e in altri paesi dove i diritti dei cittadini sono spesso violati. Seguiamo anche con preoccupazione l’aumento delle tensioni in Asia intorno alla Cina[2]”.
La portavoce del Ministro degli Esteri russo ha glissato sulla seconda parte della dichiarazione programmatica. Ha preferito focalizzare l’attenzione sulla prima.
Via press, ha annunciato Urbis et orbis che Mosca “si aspetta che la linea del nuovo Governo italiano nei confronti della Russia si fondi sul pragmatismo, sulla disponibilità a lavorare sulla base di un’agenda positiva e non sia influenzata da irritazioni e provocazioni portate dall’esterno, sul “presupposto che in Russia e in Italia esista un consenso interno sull’importanza e la priorità del rafforzamento della cooperazione tra i due Paesi”.
Lasciando da parte le volute e ricercate sgrammaticature diplomatiche di chi conosce fin troppo bene il mondo delle Relazioni Internazionali, è più interessante concentrarsi sulla sostanza politica, se così la si può chiamare.
In vista del 23 giugno 2021, termine di scadenza dell’ultimo semestre delle misure restrittive adottate dall’Unione Europea verso la Russia, Mosca chiede a Roma di lavorare sulle sanzioni susseguenti all’invasione della Crimea del 2014 e ai disordini nel Donbass del 2015, senza mettere negli ingranaggi diplomatici ulteriori fattori di attrito legati caso Navalyn, come invece ha fatto nella recente visita moscovita Josep Borrell, Alto Rappresentante dell’Unione Europea per gli Affari Esteri e la Politica di Sicurezza.
È una richiesta ambiziosa e improba.
Il Consiglio Europeo del 19 marzo 2015[3], all’unanimità, ha subordinato la revoca delle sanzioni alla piena osservanza dei Protocolli di Minsk II[4], firmati il 12 febbraio 2015 dal format Normandia (Russia, Ucraina, Germania e Francia), alla cui base è posto il principio dell’inviolabilità dell’intero territorio dell’Ucraina, Donbass incluso, mentre della Crimea non vien fatta menzione.
Da notare incidentalmente che il principio dell’integrità territoriale è il leitmotiv dei discorsi di Lavrov.
Il format Normandia non ha portato a una totale de-escalation dopo il 9 dicembre 2019 quando, all’Eliseo, si è svolto l’ultimo vertice tra Putin, Zelenskiy, Merkel e Macron.
La pandemia in corso ha fatto slittare sine die l’incontro preventivato per il marzo 2020 a Berlino allo scopo di appianare l’interpretazione dei punti controversi dell’inattuato Protocollo Misk II. Tuttavia, il cessate-il-fuoco è in atto dal luglio 2016 e regge.
Dal punto di vista di Kiev, se Mosca decidesse di ritirarsi dal Donbass e dalla Crimea, i problemi scomparirebbero.
Al contrario, i russi hanno costruito in Crimea opere infrastrutturali di natura logistica, come autostrade, ponti, ferrovie e ampliato il porto di Sebastopoli, segno che non intendono lasciare quella terra (strategica per contrastare l’allargamento della NATO ad est) e l’accordo di associazione Unione Europea-Ucraina, negato invece alla Russia.
Se questo è il quadro generale, Mosca ha colto l’occasione della dichiarazione di Draghi, che interpreta pro domo sua, per chiedere all’Italia decisioni impossibili, senza neppure concedere la precondizione dell’abolizione delle contro-sanzioni che più toccano l’Italia, come il divieto d’importazione dei prodotti agricoli.
È come se Lavrov avesse detto a Draghi “hic Rhodus, hic salta.” È più difficile togliere le sanzioni, piuttosto che metterle[5].
Il Governo Draghi non può rompere l’unanimità finora raggiunta in seno al Consiglio Europeo sulle sanzioni alla Russia con una decisone unilaterale. Roma sarebbe tacciata di inaffidabilità dalle due sponde dell’Atlantico.
Decisamente velleitario apparirebbe il tentativo di Draghi d’intestarsi un’alleanza tra paesi propensi a revocare le sanzioni a Mosca. L’accusa di rompere il fronte diplomatico comune dovrebbe essere messa in conto.
Alle stesse obiezioni soggiacerebbe il rinnovo condizionato delle sanzioni.
Questi tre tipi di decisioni presentano il comune inconveniente di dipendere dalle volontà di Mosca nel revocare le contro-sanzioni, nel pericolo di incappare nelle sanzioni secondarie, finanziarie, reali e ad personam, applicabili da Washington verso le imprese e gli imprenditori italiani, se venisse usato il dollaro per compiere transazioni con la Russia, o se la società avesse succursali negli Stati Uniti — senza dire del danno di immagine dell’Italia.
L’ipotesi più probabile è che il Governo europeista ed atlantista di Draghi approvi senza condizioni il rinnovo delle sanzioni verso la Russia.
A Mosca lo sanno e si sono preparati per tempo. Lavrov ha dato Draghi in pasto alla Zakharova, perché la Russia ha già trovato vie alternative all’Italia per rifornirsi di prodotti alimentari e meccanici: non ha più un mercato da offrire.
Ma c’è di più. Il Cremlino dapprima ha escluso gli Stati Uniti dal format Normandia. Ora non reputa opportuno che l’Italia ne diventi parte attiva. Alle porte di casa non vuole altre potenze.
Ha scelto in Europa come discreto interlocutore politico ed economico solo la energivora e condizionabile Germania.
La presenza della Francia, sicuramente non russofobica, è il prezzo da pagare per avere la Germania nel format Normandia.
Dal canto suo, la Russia si guarda bene dal contro-sanzionare la lucrosa pipeline South Stream-2 che porterà il metano dalla Siberia alla Germania, cosa che invece gli Stati Uniti hanno fatto.
La Russia non ha nessuna intenzione di lasciare il Donbass. Preferisce le sanzioni, alle quali col tempo si è adattata, piuttosto che ritirarsi.
Semplicemente, riflette sul da farsi.
Ecco perché l’iniziativa diplomatica di Draghi andrebbe a disturbare l’attenta attesa di tempi migliori da parte dei russi nel Donbass e nell’Ucraina.
Infatti, nel marzo 2018, quando tre navi militari ucraine tentarono di entrare nel mar d’Azov tramite lo stretto di Kerch e furono catturate dai russi, Lavrov disse chiaramente agli omologhi francese, tedesco e americano che ucraini e russi non avevano bisogno di intermediari per parlarsi.
Fosse stato per accelerare i tempi della pace, sarebbe stata accolta da tempo la formula Steinmeier sulle modalità di svolgimento di libere elezioni nei territori occupati dai russi, punto su cui il negoziato si è arenato.
Importanti settori dell’opinione pubblica e della politica russa guardano sempre più con favore ad Oriente.
Fatto salvo il rapporto speciale con la Germania, Lavrov per formazione e convinzione è incline a proiettare il più possibile la potenza russa sul continente asiatico e sugli Oceani.
In questo gli Stati Uniti giocano un ruolo attivo per spingere la Russia tra le braccia della Cina, nella speranza che l’incontro si trasformi in scontro.
Lavrov, si sta precostituendo una giustificazione nel caso di rinnovo delle sanzioni per accusare d’inaffidabilità l’Europa ed essere libero di guardare ancor più verso la Cina.
Da vecchia volpe della diplomazia qual è, ha prontamente inchiodato Draghi alle sue parole, assegnandogli una missione impossibile, che avrebbe come fine la divisione tra gli Stati dell’UE.
Lavrov forse non sa quanto siano divisi gli europei tra di loro per aver bisogno del suo aiuto.
Draghi è caduto vittima d’impostazioni e formulazioni di politica estera consunte dall’unipolarismo americano.
La via italiana per la ricerca del dialogo con l’URSS aveva possibilità di successo al tempo della contrapposizione dei blocchi Est-Ovest. Oggi quegli spazi di manovra non ci sono più.
Già è difficile coniugare rettamente atlantismo ed europeismo.
Se poi vi si intreccia la ricerca italiana di una terza via obliqua, il cortocircuito è sicuro, perché è sgradita a Est, come ad Ovest e non ha sostenitori: gli stessi prodotti agricoli possono diventare oggetto di controsanzioni russe e di dazi americani.
Le emergenze sono altre.
Geograficamente, la Russia europea non richiama più soltanto la lontana pianura Sarmatica. È diventata dirimpettaia dell’Italia in Cirenaica.
Questo richiede — non all’Unione Europea a trazione franco-tedesca ma all’Italia — una rimodulazione degli obiettivi di politica estera, che devono basarsi prima di tutto sulle proprie forze[6].
Al Cremlino pensano su come evitare, in Europa, la concorrenza del gas qatariota: è una questione fondamentale per recuperare un ruolo determinante nello scenario mondiale.
Di bocconcini sul suo desco Lavrov non vuole neppure sentire parlare. Chi ci prova rischia di diventare un suo bocconcino.
Ad impossibilia nemo tenetur. A fortiori vale anche per il Presidente del Consiglio Maio Draghi.
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Note:
[1] https://www.agi.it/estero/news/2021-02-20/rapporti-italia-russia-governo-draghi-11486985/
[2] https://www.governo.it/it/articolo/le-comunicazioni-del-presidente-draghi-al-senato/16225
[3] https://www.consilium.europa.eu/media/21876/st00011it15.pdf
[4] https://peacemaker.un.org/sites/peacemaker.un.org/files/UA_150212_MinskAgreement_en.pdf
[5] Per un’analisi casistica dello strumento sanzionatorio v.d. Giumelli, F., Hoffmann, F., & Ksiazczakova, A. (2020). The when, what, where and why of European Union sanctions. European Security. https://doi.org/10.1080/09662839.2020.1797685
[6] A. Giannuli (2018). Come i servizi segreti stanno cambiando il mondo, Ponte alle Grazie, Milano, p. 138
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Scelto e pubblicato da Franco