Ambrose Evans-Pritchard per The Telegraph
Cosa succede quando la torrida reflazione monetaria e fiscale in Occidente incontra la stretta creditizia e l’evaporazione della liquidità in Cina?
Scopriremo abbastanza presto chi è il vero responsabile dell’inflazione mondiale, in un’economia globalizzata dominata dai flussi di capitale transfrontalieri.
Scopriremo anche se queste due forze in collisione si modereranno a vicenda, o se invece sconvolgeranno i mercati valutari, delle materie prime e delle obbligazioni, facendo salivare gli hedge fund.
“Siamo davanti a una situazione incredibile. Gli Stati Uniti stanno gettando il ‘lavandino della cucina’ sulla loro economia, ma la Cina ha superato il picco e sta premendo sul freno” — ha detto Mark Williams, capo economista asiatico di Capital Economics — “Hanno cominciato con il ‘tenere a freno’ il settore immobiliare lo scorso settembre e sono stati molto veloci a passare dal ‘preoccuparsi della crescita’ al ‘preoccuparsi del debito’. Il boom degli investimenti post-Covid ha fatto il suo corso”.
Il “credit impulse” cinese [è la variazione del nuovo credito emesso, misurato come percentuale del Pil, ndt] è diventato negativo. Quest’indicatore traccia gli alti e i bassi del “total social financing”, il meccanismo-chiave di Pechino per regolare l’economia.
È un “indicatore di allarme precoce” dei compulsivi cicli di “stop and go” della Cina che, a loro volta, guidano tutto: dai prezzi delle materie prime per l’industria coreana alla produzione tedesca di macchine utensili.
“La People’s Bank of China sta conducendo una politica monetaria ortodossa, mentre tutti gli altri stanno impazzendo” — ha detto Simon Ward di Janus Henderson — “La gente è troppo concentrata sugli Stati Uniti e trascura quello che sta accadendo in Cina, dove l’offerta di denaro si sta visibilmente riducendo”.
La crescita globale dell’offerta di denaro (M1 reale a sei mesi) è scesa al 3.9pc, dal picco del 14.4pc dello scorso luglio.
Aspettatevi un’economia mondiale molto meno esuberante entro il prossimo inverno — e ancor meno carburante per i surriscaldati mercati azionari.
Lo scenario sembra alquanto diverso se siete seduti in America, dove l’Amministrazione Biden sta gestendo un deficit di bilancio del 13pc, nonostante l’output-gap si sia chiuso, l’economia stia raggiungendo il vincolo di capacità, i posti di lavoro non occupati siano a livelli record e i prezzi delle case siano aumentati dell’11% — superando il picco dei subprime del 2006.
Joe Biden sta consapevolmente copiando il modello di “economia di guerra” di Franklin D. Roosevelt, questa volta con un doppio obiettivo: contro la disuguaglianza in casa e per rispondere alla corsa tecnologica della Cina all’estero.
Analogamente a Roosevelt, sta usando la Federal Reserve come “agente di politica fiscale e di finanziamento del debito”.
La Fed continua a comprare 120 miliardi di dollari di obbligazioni ogni mese, nonostante la massa monetaria M2 sia aumentata del 24% nell’ultimo anno — e la “core inflaction” sia al massimo da 25 anni, al 3pc.
La Fed di Powell resta fedele alla sua posizione, considerando quest’effetto come “transitorio”, dovuto alle strozzature post-pandemiche. Giura di mantenere i tassi d’interesse a zero a perdita d’occhio.
La Fed può aver ragione ad accettare questa storica scommessa, ma una tale insensibilità sta diventando più difficile da sostenere quando persino i teorici keynesiani come Olivier Blanchard mettono in guardia dagli “eventi del 1967” e dagli errori politici che portarono alla Grande Inflazione.
Se gli Stati Uniti fossero ancora un’economia chiusa come ai tempi di Bretton Woods (ovvero prima della globalizzazione), il blitz di Biden-Powell avrebbe portato senza dubbio a un’inflazione galoppante.
Ma il mondo non è più piatto. È la Cina che oggi fissa il prezzo delle materie prime e del commercio globale di beni.
Elsa Lignos e Adam Cole di RBC Capital Markets dicono che ogni ciclo di deleveraging nella Cina moderna invii un’onda deflazionistica che attraversa l’intera economia globale e che, questa volta, potrebbe elegantemente neutralizzare gli eccessi “a forma di V” che si stanno accumulando in Occidente.
Ma un esito così felice dipende, se del caso, da quanto duramente la Cina rallenta — e da quanto dura il mini-crollo.
In questo momento il “credit impulse” sta contraendosi a un ritmo equivalente al 7pc del Pil e stiamo assistendo allo spettacolo poco familiare di un’economia cinese che a malapena riesce a tirar fuori una crescita del 5pc, più lenta di quella degli Stati Uniti, del Regno Unito o della Francia.
“La campagna di deleveraging sta andando a piena forza”, ha detto Wei Yao di Société Générale.
Le vendite al dettaglio non son mai veramente riprese (a differenza della sfera anglosassone), i servizi sono ancora mollicci e la crescita delle costruzioni è rallentata fino a quasi zero.
Le imprese statali (SOE), una volta intoccabili, sono costrette al default per ripulire il sistema dall’endemico rischio morale. La politica fiscale è ridotta all’1,5pc del PIL.
È il duro amore per la disciplina di Liu He, il flagello dell’”economia cinese delle bolle” — ed è difficile far quadrare la sua medicina con i discorsi relativi a un nuovo “superciclo delle materie prime” a New York e Londra.
La Cina, dopotutto, è l’”acquirente di ultima istanza” del mondo per i metalli industriali e il carbone.
Consuma il 50pc delle forniture di minerale di ferro — e la metà di queste alimenta il settore immobiliare cinese, ora a dieta ipocalorica.
“I prezzi delle materie prime sono a forte rischio di una grande inversione”, sostiene Société Générale.
Ciò che colpisce è che Liu continui a stringere il rubinetto anche se la Cina è già vicina alla deflazione strutturale. La “core inflaction” è solo allo 0,9pc e il “tasso core” è ancora più basso.
Sì, l’inflazione dei prezzi alla produzione (PPI) è aumentata in aprile al 6.8pc, ma questo è un effetto della pandemia: il rimbalzo delle materie prime dai minimi artificiali e i colli di bottiglia industriali presenti in tutta l’Asia orientale che, presto, si chiariranno.
La carenza asiatica di semiconduttori potrebbe anche passare alla sovrabbondanza entro il prossimo anno. Il tasso d’inflazione PPI della Cina, di solito, è in ritardo sul segnale del “credit impulse” di nove mesi.
“Penso che la grande sorpresa potrebbe essere uno shock deflazionistico globale. Gli investitori sono così legati alla reflazione, che potrebbe esserci un ritorno di fiamma molto violento se qualcosa la sconvolgesse”, ha detto Albert Edwards, stratega globale della Société Générale.
Lo scenario benevolo è che una Cina in rallentamento compensi un’America in crescita, mantenendo una ripresa globale “Goldilocks”, né troppo calda né troppo fredda.
Sarebbe una bella rivincita per la Fed, la Banca d’Inghilterra e la confraternita del QE.
Lo scenario maligno è che lo stimolo fiscale negli Stati Uniti svanisca nel corso di quest’anno, proprio quando la Cina tocca il fondo del suo ciclo di deleveraging.
Si tratterebbe di un brusco risveglio per le borse globali e per gli speculatori delle criptovalute, ma una dolce vendetta per gli obbligazionisti.
Peggio ancora è lo scenario in cui il disaccoppiamento USA-Cina inneschi una scivolata del dollaro (e il conseguente aumento dello yuan e dello yen) tale da far rizzare i capelli, se le Banche Centrali asiatiche e i “fondi patrimoniali” smettessero di finanziare i colossali deficit di Biden — il deficit commerciale statunitense sta dirigendosi verso i mille miliardi di dollari.
Potreste chiamarla una “crisi di finanziamento” degli Stati Uniti.
Non capita spesso che le placche tettoniche dell’economia del Pacifico si separino con tanta forza. Quando lo fanno, si creano inevitabilmente dei problemi.
Preghiamo per il “Goldilocks”.
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Scelto e tradotto da Franco
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