Claudio Chianese per l’ Intellettuale Dissidente
Ed ecco di nuovo il Gay Pride, noioso come un gioco di ruolo di tre generazioni fa.
Una variazione sul tema “guardie e ladri”, da giocarsi tra finti indignati e finti tolleranti.
L’irrilevanza dell’evento si potrebbe riassumere nelle stesse due righe sufficienti a descrivere la trama di una qualsiasi puntata della serie Don Matteo.
Oltre alla polvere, però, il Gay Pride condivide con la geriatrica fiction Rai anche la teologia: lo stesso cristianesimo scemo e zuccheroso, ma rivoltato al contrario.
Veniamo da due secoli di straordinaria, potente blasfemia.
Ma Gesù coi tacchi no, vi prego … e, soprattutto, non lo giustificate col solito glitterato catechismo LGBT+.
Mettiamo le cose in chiaro: Cristo non sfilerebbe affatto nel Gay Pride, ma non perché ci sono gli omosessuali.
Non sfilerebbe perché il Gay Pride — per quando legittimo in certe sue rivendicazioni — non è una battaglia per i deboli, per gli ultimi.
Ce lo raccontano ancora, ma è una falsità.
Fra le sex worker — unico lascito formativo dell’Erasmus ad Amsterdam — e le prostitute della Galilea c’è un abisso sociologico seppur, forse, non esistenziale … ma adesso stiamo facendo politica.
E c’è un abisso anche fra i gay di Stonewall e i gay di oggi.
Quello che attraversa l’orientamento sessuale dell’Occidente contemporaneo sembra sottilissimo di fronte alla povertà e all’esclusione sociale.
Brutalmente, fra i manifestanti del Gay Pride c’è tanta gente che sta benissimo.
Sono gli operai che scioperavano davanti al Lidl di Biandrate che, invece, stavano tutti male.
Il Cristo crocifisso accanto ad Adil Belakhdim, il sindacalista ucciso, avrebbe avuto un senso. Il Cristo arcobaleno no.
Ma questa pretesa vittimistica assomiglia, dopotutto, a quella di certi cristiani da combattimento, stile Adinolfi, che di mestiere annunciano la fine dei tempi, laddove famiglia e religione stanno mutando, come sempre, in nuove forme di borghese normalità.
Due squadre speculari di privilegiati mediatici intenti a scambiarsi invettive — ma Dio non gioca a dadi … e nemmeno a tennis.
D’altra parte, non è che ci si possa indignare sul serio se qualcuno deride l’uomo della Croce: è un elemento fondamentale della sua narrativa, fin dai tempi del ladrone miscredente.
Quindi, la riflessione si riduce a questa perplessità: se la blasfemia non sensibilizza nessuno, non offende nessuno, non fa arte … allora a che serve?
Serve, come tutto l’attivismo progressista, a sbrodolarsi in pubblico. E solo a questo.
Da early millennial quale sono, ricordo ancora l’epoca in cui dichiararsi anticlericali a scuola suonava vagamente trasgressivo — atei per assenza d’opinioni, invece, lo erano già tutti.
Figure bonariamente caratteristiche, alla maniera di Stefano Benni, si presentavano con la maglietta di Marilyn Manson (o un suo equivalente) e ciarlavano di come la religione avesse provocato tutti i mali del mondo.
Altri, invece, andavano in palestra per farsi gli addominali. Altri ancora derapavano senza casco col motorino.
L’anticlericalismo, però, ha il vantaggio di valere come posizione politica prêt-à-porter, venduta in pratici kit da associazioni che hanno già pensato al posto dei loro iscritti — la UAAR su tutte.
Insomma, quando c’è da scegliere un mulino contro cui sprecare la propria esistenza, la Chiesa è un’opzione davvero invitante soprattutto perché, concettualmente (sia detto alla buona), è nemica della scienza e, la scienza, piace alla gente che piace.
Poi perché sembra un’Istituzione potente, se s’ignora l’ininterrotto tracollo dal Rinascimento in poi.
Il relativo potere che resta è oltremondano [qualcosa che trascende i limiti della vita terrena], ma non nel senso delle Chiavi di Pietro.
Come i dinosauri di Magrelli: “orfani del futuro, tristi animali da congedo, belve della malinconia”.
La struggente dolcezza di questa lunga estinzione dovrebbe emergere molto di più dei lagnosi dibattiti sulle scuole paritarie: ma i progressisti, si sa, non hanno senso estetico.
Fa un po’ schifo e anche un po’ ridere questo anticlericalismo coi baffi a manubrio, ante breccia di Porta Pia.
E’ fastidiosa questa tendenza a invocare, come soluzione, lo stato laico perché, come ha detto Carl Schmitt: “tutti i concetti più pregnanti della moderna dottrina dello Stato sono concetti teologici secolarizzati”.
E’ il problema della teologia politica che si è misteriosamente persa per strada. Facciamola breve, però.
L’intervento della Chiesa è stato legittimo e inutile. Ugualmente legittime (effetti collaterali della libertà di espressione) e inutili le fanfare di tutti i bersaglieri arrivati centocinquanta anni in ritardo.
Di conseguenza, non ci arrischiamo a rispondere alle complesse domande che emergono, quali ad esempio: può uno Stato essere davvero laico, senza fondare il potere sovrano sulla metamorfosi del sacro? No.
Oppure: il ddl Zan andrebbe approvato? Nemmeno.
La questione di fondo è un’altra: bestemmiare, oggi, non serve a niente, come non serve a niente pregare.
Ecco i due fuochi nell’ellisse del nichilismo: la morte dell’uomo e la morte di Dio.
Ma tanti giovani opinionisti non hanno ancora ammesso la fine dell’essere umano, diventato mero incidente della storia.
Ci credono ancora, come le vecchie vedove che parlano alla foto del marito.
Fra le conseguenze del delirio c’è la feroce caccia al prete di questi giorni. La sinistra progressista, in effetti, è tale solo rispetto all’età vittoriana.
Parte da lì la deriva retorico-apocalittica che non cambia mai: i gay sono sempre a un passo dal triangolo rosa, l’Italia dalla sovversione fascista e i liberi pensatori dai processi del Santo Uffizio.
Verrebbe da dire che, se siamo ridotti a questo livello, potevano risparmiarsi un secolo di fatica. Ma non sarebbe vero, perché ci sono state battaglie che era necessario combattere.
Adesso sono finite ed è cambiato anche il concetto di battaglia politica: i gay non sono discriminati, ma il mondo moderno li inchioda all’ipervisibilità e li totemizza come animali araldici della democrazia.
Il razzismo è diventato l’influenza coloniale del mercato sulle culture marginali; la religione è ridotta al cratere del Cristianesimo e all’incomunicabilità con l’Islam.
Avremmo bisogno di una sinistra che non viva di rendita. O, almeno, che i ribelli sbattezzati non fossero così anacronistici.
Perché, ricorda Sergio Quinzio, “il nichilismo è alle spalle, ma davanti a noi c’è il nulla”.
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Link originale: https://www.lintellettualedissidente.it/controcultura/societa/cristo-pride-chianese/
Scelto e tradotto da Franco
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