Redazione: capimmo che per Andrew Cuomo era finita quando la stampa liberal cominciò a gettar fango su di lui. La stessa cosa sta accadendo, ora, con Joe Biden.
C’è chi chiede le sue dimissioni perché ha perso la fiducia del popolo americano, mentre altri invocano il 25° emendamento — la maggioranza del Gabinetto e la Vicepresidente Harris potrebbero dichiarare Biden incapace di adempiere ai suoi doveri di Presidente.
Ma quello che conta è l’opinione del vero vincitore della Guerra in Afghanistan, il “complesso militar industriale”, il “Blob”.
Per Biden è cominciato il conto alla rovescia e, quindi, la domanda è: quando?
Attendiamo con ansia quel momento perché potrebbe essere un passo in avanti nella distruzione dell’America.
La Harris non è migliore di Biden. E’ solo più giovane e quindi in grado di leggere il Teleprompter.
“Mala tempora currunt sed peiora parantur”, disse Cicerone. Corrono brutti tempi, ma se ne preparano di peggiori.
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Dominic Green per The Telegraph
La lunga luna di miele di Joe Biden con i media statunitensi è finita, tra il fiasco del ritiro dall’Afghanistan e i fact-checkers che gli si sono rivoltati contro.
Non ci sarà modo per tornare indietro.
La maggior parte dei media americani erano a tal punto accecati dall’avversione per Donald Trump — e così eccitati dalla prospettiva di far rivivere i giorni di gloria dell’Amministrazione Obama — da promuovere Biden come “candidato della normalità”, proteggendolo dai dubbi sulle sue capacità.
Ma ora non più e, quindi, la domanda è: perché?
Sembra improbabile che i media filodemocratici siano stati colpiti da un attacco di “consapevolezza” (o di “coscienza”) e che, quindi, abbiano abbandonato i loro ruoli di propagandisti così precipitosamente da competere in rapidità con il personale dell’Ambasciata americana a Kabul, quando è scappato a bordo degli elicotteri.
La risposta potrebbe trovarsi vicino casa.
Ritirandosi dall’Afghanistan Biden, come Donald Trump prima di lui, ha incrociato quelle forze che i leader americani non sono riusciti a contenere fin dal tempo degli attacchi dell’11 settembre.
Non i Talebani, quindi (oltretutto, gli Stati Uniti sembrano andarci sorprendentemente d’accordo in questi giorni), ma un nemico ancor più intrattabile per la democrazia liberale: il Blob.
Le guerre in Afghanistan e in Iraq hanno messo in evidenza, a Washington, la follia di quel lucroso “pensiero di gruppo” che lega i produttori di armi, i burocrati, i think-tank e i militari con i “funzionari eletti” [politici] che devono portare a casa la carne di maiale.
Il team di Obama chiamò quel matrimonio fra “vanità imperiale” e “venalità vecchio stile” … “il Blob”.
Per i seguaci di Trump è invece “la Palude” mentre, per chi fa parte della sua cerchia (e per gli accademici che vorrebbero entrare), è il “Washington Consensus”.
I media americani amano parlare del vecchio giornalismo, quello del parlar-chiaro-al-potere.
Ma, dall’11 settembre, si son posti per lo più su una linea di lavoro decisamente più comoda: parlare per conto del potere.
I media che si erano offerti volontari per supportare quella narrativa sono ancora sul campo.
Agli albori dell’Impero di George W. Bush una carriera giornalistica poteva essere costruita sulla base di un periodo passato da embedded [al seguito dell’esercito] o della scrittura di un libro su commissione — con la pensione garantita sulle panchine della CNN.
E cosa c’è di meglio, per l’audience, di un’emergenza permanente e di una guerra senza fine?
Le guerre costano anche più degli stati sociali, ma vendere la Guerra al Terrore non costò niente.
I media, addomesticati dallo stillicidio di scoop, fake news e finte esclusive, diventarono efficienti megafoni del panico quotidiano.
Ebbene, i programmi via cavo e i giornali americani di questi ultimi giorni sembrano una replica.
Le teste parlanti che hanno venduto all’opinione pubblica le guerre dei primi anni 2000 sono tornate, spiegando perché il ritiro sia strategicamente una follia — e che eravamo solo a uno o due attacchi di droni dalla vittoria. E poi, è vero che il ritiro sia in ritardo di circa diciannove anni, ma la gestione di Biden è stata comunque cronicamente maldestra.
Il Blob combatte sempre per vincere, almeno sul suo territorio.
Biden ha supportato le avventure all’estero del Blob, ma ora si trova dalla parte sbagliata — quella del popolo americano, che si è stancato dell’Afghanistan e dell’Iraq.
E così gli outlets che hanno venduto le guerre senza fine e anche la candidatura di Biden, ora sussurrano che il suo tempo sia finito.
Lo scrivono anche per pararsi le terga, perché Biden è palesemente superato … e i media hanno speso molte energie per coprirlo.
Nel frattempo, la Vicepresidente di Biden, Kamala Harris, è passata dal vantarsi di essere stata nella stanza ovale quando Joe firmava per il ritiro dall’Afghanistan, allo sparire dalla scena.
In realtà, questo non è del tutto giusto.
Kamala Harris è passata dalla quasi totale invisibilità sul confine messicano — dove il team di Biden l’aveva mandata per occuparsi della crisi dei migranti — all’alta visibilità … se per caso vi trovaste in Vietnam o a Singapore, dove ora sta soggiornando.
La seconda Saigon, Kabul, è tal punto imbarazzante … che è senz’altro meglio trovarsi nella prima Saigon.
Mentre la Harris fa finta di niente, Biden è sotto pressione per l’Afghanistan.
C’è ancora tempo, ma la virata dei media ha dato inizio al conto alla rovescia verso l’eventualità che nessuno — a parte il “Second Gentleman”, “il Blob” e la stessa Veep — attende con ansia: Kamala Harris alla Casa Bianca.
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Scelto e tradotto da Franco
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