Valérie Toranian per Revue Des Deux Mondes
La Benetton, il cui fatturato è crollato con la pandemia, sta cercando di recuperare mercato con un’intelligente campagna di marketing: un rapper molto seguito e un’idea “seriamente cool” per attirare i giovani.
Un hijab colorato “unisex”.
Ghali è un italiano di origine tunisina. È felice che la Benetton stia promuovendo questo “hijab inclusivo” indossato anche dagli uomini.
La normalizzazione del velo islamico attraverso la moda non è una novità. Abbiamo già avuto il foulard glam, il foulard fashion, la moda delle donne “modeste” (in opposizione a tutte le altre che sono, evidentemente, immodeste).
L’industria della moda si sta impadronendo, senza pensarci due volte, di un mercato di diverse centinaia di milioni di consumatori. Business as usual.
Benetton era conosciuta, negli anni ’80, per le sue campagne provocatorie che sostenevano la mescolanza delle culture.
Pensa, forse, di far rivivere la sua tradizione “impertinente” commercializzando un hijab unisex inclusivo? Ma questo è a tal punto all’opposto da risultare quasi comico.
Un uomo che indossa un hijab “non copre la sua vergogna”, che è quella di provocare l’altro sesso.
Non rischia nulla se non lo indossa. Soprattutto in Europa, nelle nostre democrazie, dove tutte le identità di genere sono protette.
In Iran, nel 2016, gli uomini avevano lanciato un movimento “hijab per gli uomini” in segno di solidarietà con le donne iraniane sottoposte all’obbligo di portare il velo.
Una protesta simbolica ma chiaramente concepita come una provocazione al regime dei mullah. Un rischio reale.
Ma Ghali e Benetton non vogliono turbare il regime islamista in Iran, Arabia Saudita o Afghanistan: restiamo ribelli, ma al caldo nei nostri maglioni Benetton e in regimi democratici.
Il rapper Ghali, ahimè, non indossa l’hijab per solidarietà con le donne che sono state imprigionate per aver rifiutato di indossarlo.
Come l’avvocatessa Nasrin Sotoudeh, condannata nel 2019 a quindici anni di prigione e a 148 colpi di bastone dal regime iraniano per, tra le altre cose, essersi presentata in Tribunale senza hijab.
No, Ghali porta orgogliosamente il suo velo come emblema della “donna musulmana libera” che deve essere protetta da tutti gli orribili “islamofobici”. Non ci pensa nemmeno a denunciare la natura sessista, patriarcale e politica del velo.
Il velo, in effetti, è diventato il simbolo stesso dell’identità musulmana.
Se vent’anni fa era indossato da una minoranza di donne nei Paesi non musulmani (e talvolta anche nei Paesi musulmani), oggi è diventato la rappresentazione ufficiale dell’Islam: questa è la più grande vittoria dell’Islam politico.
A parte alcuni mullah che faranno una smorfia di fronte all’uso “degenerato” di un simbolo tradizionale, la maggioranza degli islamisti non può che accogliere con favore questa consacrazione del loro standard politico da parte della moda, del femminismo inclusivo e del business.
Questo attenuerà la loro delusione per aver visto la campagna pubblicitaria del Consiglio d’Europa — che promuove la bellezza, la diversità e la gioia attraverso l’hijab — rimossa (temporaneamente?) dal sito ufficiale dell’istituzione europea.
Una campagna stupefacente che promuove il velo della sharia con il pretesto di combattere “l’odio e la discriminazione” subita dalle donne musulmane — dietro la quale si nasconde la rete dei Fratelli Musulmani europei, aiutati dai loro utili idioti “risvegliati”.
Vale la pena leggere l’eccellente articolo di Florence Bergeaud-Blackler che spiega in modo eccellente l’intera questione:
“Le istituzioni europee si son messe al servizio di organizzazioni che vogliono ripristinare il reato di blasfemia in nome della lotta contro l’odio? La domanda è legittima.
L’UE si è persino offerta di ‘sensibilizzare’ giornalisti e commentatori ‘alle narrazioni sull’Islam e i musulmani nei media’, di ‘educarli’ sull’uso del linguaggio e della terminologia, al fine di ‘assicurare l’equilibrio delle narrazioni e dei racconti’ in seminari volti a ‘migliorare la copertura mediatica dei musulmani e dell’Islam’”.
Terribile.
Come ci ricorda Naëm Bestandji in un libro appassionante, la questione del corpo delle donne è stata l’ossessione dei Fratelli Musulmani fin dalla loro nascita.
Più perniciosa della stessa “dottrina salafita” (la loro ideologia conservatrice), pretende di essere il matrimonio tra modernità e Islam. Ma, in realtà, si prefigge d’islamizzare la modernità.
La velatura non si basa sul Corano, ma sulla necessità di affermare la propria identità in contrapposizione all’Occidente e ai suoi valori.
Il velo è anche un indicatore. In un Paese, più le donne si velano più l’Islam politico è presente. In tal senso, le campagne per banalizzare l’hijab e far sentire in colpa la società sono essenziali.
Indossare il velo è più importante che recitare le classiche cinque preghiere. È un servizio alla “dignità” della ummah. Le donne che lo indossano sono attiviste di un particolare stile di vita.
Ma indossare il velo significa conformarsi a un’esigenza non di “modestia”, ma di eccessiva visibilità.
È un simbolo sessista e inegalitario, anche se ci si vela in piena libertà. Tutto il resto è una bella favola concepita per inghiottire la progressione dell’Islam politico.
Il velo è solo un pezzo di stoffa, come qualsiasi altro accessorio di moda?
Così fosse, ci ricorda Naëm Bestandji, allora “le donne velate non dovrebbero avere problemi a toglierselo per ottenere un lavoro, accompagnare gli studenti nelle gite scolastiche o fare sport”.
Il velo non è più sessista di una minigonna o dei tacchi a spillo?
Così ha scritto Naëm Besdtandji:
“Esiste un’ideologia totalitaria che impone la minigonna o i tacchi a spillo, pena il carcere, le punizioni corporali o addirittura la lapidazione, come per il velo?
Ci sono attacchi in nome di quest’ideologia? Le donne sono state assassinate per aver rifiutato d’indossare una minigonna nello stesso modo in cui lo sono state per aver rifiutato d’indossare il velo?
La minigonna e i tacchi a spillo non sono i portabandiera di un’ideologia totalitaria”.
Trent’anni fa, sottolinea giustamente l’autrice, a una donna si chiedeva perché portasse il velo. Oggi, invece, le chiediamo perché non lo indossa.
L’Islam politico ha derubato il corpo delle donne imponendo un velo sessista e inegalitario.
Ma noi applaudiamo la libertà dell’hijab. Poveri noi! Sono le donne di cultura o religione musulmana le prime vittime di questa “normalizzazione”.
*****
Link: https://www.revuedesdeuxmondes.fr/sois-libre-et-soumets-toi-la-spectaculaire-banalisation-du-hijab/
Scelto e tradotto da Franco